Una stanza fuoricampo, un soggiorno. Un gatto certosino soggetto di un guardare negato. Gemiti in sottofondo, di dolore o di piacere, forse entrambi. Qualcosa che cade, dei piatti si rompono. Il gatto scappa, finalmente il ribaltamento di prospettiva, e allora vediamo. Un atto sessuale violento, uno stupro? Un uomo mascherato si accanisce su una donna, ha un orgasmo, si allaccia i pantaloni e scappa dalla finestra da cui ha fatto irruzione. La donna stesa a terra si rialza, si fa un bagno. Ha il sesso sporco di sangue. Non chiama la polizia, non denuncia il fatto se non una sera, a cena tra amici, che accolgono la notizia con tiepido disappunto. Una brutta cosa, ma è capitata e tanto vale andare avanti. Almeno fino a quando il brutale aggressore non comincia a mandarle messaggi minatori, a intrufolarsi di nascosto nella sua camera da letto per inondarle le lenzuola di viscido sperma… Paul Verhoeven, classe 1938, torna alla regia di un film squisitamente francese, che guarda Michael Haneke nelle idee (tanto da condividerne un’attrice importante: Isabelle Huppert), ma finisce con l’imitare, almeno nell’impianto generale, un certo cinema di Atom Egoyan. Geometria, freddezza, una messa in scena che fa della mancanza di stimoli lo stimolo principale, dell’asettico formalismo la sostanza palpitante della sua espressione. Non è un difetto, perché Verhoeven omaggia forse un po’ anche quel Claude Chabrol che mostrava una cosa per dire il suo opposto, che suggeriva il dramma per mutarne le coordinate in quelle del noir e viceversa. Isabelle Huppert è fredda, dura, un pezzo di ghiaccio. Un po’ come ne La cérémonie (1995). Gestisce una casa di produzione specializzata in videogiochi violenti, donne aggredite da tentacoli giganti, mostri ed eroine discinte che si battono lungo fantasiosi scenari virtuali. La sua “normalità” è soltanto apparenza, e pian piano il film del regista olandese scoperchia un pentolone ripieno di merda ribollente, a partire dalla famiglia di questa donna troppo perbene per essere rispettabile, con un figlio masochista, succube di una biondina tanto capricciosa quanto isterica; la madre ottantenne, rifatta e tirata a lustro che si fa spupazzare da un prestante gigolò installato a tempo pieno in casa sua; il padre, un terribile assassino seriale condannato all’ergastolo, la cui ombra terrificante continua a insinuarsi nelle loro vite di tutti i giorni. Anche la Huppert non è da meno, e sin dall’allucinante sequenza d’apertura ci si domanda se dietro quello stupro non denunciato non ci sia una qualche forma di connivenza, di sottile e inconsapevole complicità, se ella (il titolo è proprio questo: lei) non sappia chi sia il misterioso intruso e ci stia giocando proprio come in quei videogames che con tanta attenzione pianifica e predispone. Scappando dal mostro ma in realtà anticipandone le mosse.
Tratto da un romanzo di Philippe Djian, Elle è un film morboso, nevrotico, grottesco. Fa ridere in alcuni tratti, ma pirandellianamente, con quel sorriso di bocca che non giunge mai in profondità, allo stomaco, al sangue, all’epidermide. È una cosa automatica, come quando il figlio annuncia di essere diventato papà e presenta ai congiunti un bambino negro, color cioccolato. E di nero c’è soltanto l’amico che, muto come uno stoccafisso, tira le labbra in un sorriso di circostanza. Verhoeven predispone le sue pedine come su un palcoscenico, le incastona in una cornice di presuntuosa morigeratezza, assegna ruoli e funzioni, e poi scava nelle pieghe per farne vomitare fuori il lurido pus dell’inconscio. Ecco che la Huppert, sessantatré anni straordinariamente portati, non resta indifferente a tutto questo squallore, ne prende parte attiva, se lo fa piacere in quel modo che soltanto il già citato Haneke aveva il coraggio di rappresentare su schermo: prima si masturba col binocolo, usato per osservare il cespuglio dietro il quale si nascondeva lo stupratore, quindi si porta a letto il baldo collega, ammogliato con un’amica di vecchia data, ma fingendosi cadavere per il tempo che dura il rapporto.
La storia è sempre quella del precario, contraddittorio equilibrio tra sadico e masochista: il sadico è anche un masochista, perché gode del dolore che procura al prossimo, e per complementare inversione di ruolo, anche il masochista si scopre sadico. In fin dei conti è lui che stabilisce le regole del gioco, manovrando il carnefice, concedendogli un potere che è sempre subordinato alla frivolezza dei suoi ghiribizzi.
Marco Marchetti
Elle
Regia: Paul Verhoeven. Sceneggiatura: David Birke. Fotografia: Stéphane Fontaine. Montaggio: Job ter Burg. Musiche: Anne Dudley. Interpreti: Isabelle Huppert, Laurent Lafitte, Anne Consigny, Charles Berling. Origine: Francia/Belgio/Germania, 2016. Durata: 130′.