La fine del mondo non esiste. La fine di un mondo sì. Ad ogni morte crolla un piccolo mondo, che risucchia, come fosse un buco nero, materia fisica e affettiva. Xavier Dolan è il regista contemporaneo che più di altri ha affinità con il racconto di questi mancamenti, mai improvvisi ma sempre annunciati, nella rottura di una relazione parentale come nel sopraggiungere di una malattia (nevrosi, depressione, cancro). Ne diede prova già nel suo primo film, neanche ventenne J’ai tué ma mère (2009), e poi successivamente, fino a Mommy.
Louis (Gaspard Ulliel), giovane drammaturgo di successo, che torna a casa dopo dodici anni di silenzio per annunciare alla famiglia la sua morte imminente, è l’ultimo dei personaggi sofferenti, turbati, in equilibrio precario sull’oblio, messi in scena dal regista canadese. Ancora una volta l’omosessualità (Louis è gay), a rafforzare però il sospetto che per Dolan il cinema sia uno strumento per l’autoanalisi, una superficie (per lo più deformante) in cui riflettersi o sdoppiarsi per costringere il doppio al calvario psicologico. Dunque Louis: accolto con curiosità dalla sorella minore Suzanne (Léa Seydoux), che di lui non ha che lontani ricordi di bambina; riabbracciato con trattenuta isteria dalla madre (Nathalie Baye), che sogna una riunione definitiva e compensativa del vuoto profondo dodici anni; pizzicato sadicamente dal fratello maggiore Antoine (Vincent Cassel), che non ne ha mai sopportato le inclinazioni intellettualoidi; infine, avvicinato timidamente dalla cognata Catherine (Marion Cotillard), affascinata e al tempo stesso guardinga mediatrice tra i fratelli. Dolan mette in scena un dramma di interni, che si rivela presto la cronaca di un massacro: È solo la fine del mondo è lo schianto fulmineo di un veicolo in corsa, lungo un pomeriggio, ma forse molto meno, giusto un attimo che però si moltiplica con variazioni di punti di vista sullo stesso problema relazionale. Come se il tempo si contraesse alla maniera di Gus Van Sant in Elephant, con un ritorno centripeto verso il fuoco caldo della vicenda raccontata. Con la differenza però che le frasi balbettate dai cinque protagonisti del film non avvicinano lo spettatore alla struggente banalità del quotidiano, ma lo respingono. Difficile innamorarsi di uno solo dei personaggi, l’identificazione è lontana, i tic nervosi di superficie prevalgono sulla sostanza. I dialoghi volutamente vuoti esasperano in un loop che diventa maniera, soprattutto perché Dolan sceglie di riprendere i protagonisti per lo più in primo e primissimo piano, che, se è una magnifica intuizione che annulla le profondità e toglie valore allo spazio circostante, amplifica però la disarmonia tra sguardi e voci. E’ una scelta consapevole, meditata, ma che alla lunga dovrebbe portare a un picco emotivo che non arriva per incedere della scrittura, ma è unicamente affidato a sequenze musicali a supporto di un montaggio estetizzante, stracolmo di fuorifuoco e ralenty.
Stile? Poetica? Dolan è descritto come un genio e forse a scriverne in questi termini gli si fa del male. Il gusto estetico è notevole (non più di Malick o Tom Ford), ma la cura dell’immagine, la patinatura, sa di onanismo, non sempre serve la narrazione (come invece nel cinema di un mostro sacro come Hou Hsiao-hsien).
Eppure Xavier Dolan sembra rappresentare i tempi, le sue sono retoriche elegie di superficie che senza dubbio interpretano lo smarrimento esistenziale contemporaneo (definizione così abusata da aver perso di senso), ma costruite sugli eccessi, sull’amplificazione, su simbologie pedanti (ad esempio gli smaccati cambi di illuminazione degli ambienti), alla ricerca dell’emozione a tutti i costi, sempre a ribadire ciò che già un dialogo o un’immagine hanno espresso abbondantemente. E tornano in mente i teatrini familiari di Bergman o il Carnage di Polanski, ovviamente Pirandello, maestri in drammaturgia diversissimi tra loro, ma chirurgici nell’affondare il bisturi nei grovigli di intestini malati. Si osserva, si legge tra le righe, si percepisce il disfacimento ineluttabile di un mondo. Al contrario di fronte al tormento di Louis non vediamo l’ora che quel mondo finisca, che l’orologio a cucù, più volte presente nel quadro, rintocchi il ritmo di una chiusura ad effetto, che puntualmente arriva con la fuga dell’uccellino ingabbiato che sbatte contro le pareti, cade e muore in primo piano, urlando una metafora che cerca il lirismo e invece trova indifferenza. Ma sì: è solo la fine del mondo.
Alessandro Leone
È solo la fine del mondo
Sceneggiatura, regia e montaggio: Xavier Dolan. Fotografia: André Turpin. Interpreti: Léa Seydoux, Marion Cotillard, Vincent Cassel, Gaspard Ulliel, Nathalie Baye. Origine: Canada/Francia, 2016. Durata: 95′.