Yusuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima) è un attore teatrale di talento, sposato da vent’anni con Oto (Reika Kirishima), brillante sceneggiatrice con la quale condivide un rapporto di sesso sfrenato, praticato al solo scopo di trarre ispirazione per i soggetti artistici, e tuttavia freddo, privo di un vero trasporto emotivo, dentro al quale sembrano agitarsi fantasmi che nessuno dei due coniugi ha il coraggio affrontare. Quando Oto muore improvvisamente a causa di un ictus, Yusuke si ritrova da solo a fare i conti con la propria affettività irrisolta. Decide perciò di immergersi nel lavoro e accettare la proposta di dirigere un adattamento multilingue dello Zio Vanja di Čechov. Il pragmatismo di Yusuke viene però destabilizzato ancor prima che abbiano inizio le selezioni per il cast, quando l’impresario teatrale (Jin Dae-yeon) impone che una giovane autista (Tôko Miura) lo accompagni tutti i giorni a teatro e lo riporti indietro, a prove concluse, nella residenza di alloggio. Yusuke è così costretto a condividere non solo la propria compiaciuta solitudine, ma anche l’intima abitudine di imparare le battute dei copioni teatrali scritti dalla moglie interagendo con la voce della defunta registrata su nastro.
Il tema delle convenzioni che soffocano i sentimenti non è certamente nuovo nel cinema orientale, specie in quello giapponese. Si potrebbero fare in proposito decine e decine di riferimenti, da Ozu a Kurosawa, da Oshima a Sion Sono. Il rimando che mi viene più immediato però è tutto occidentale: Bergman, e più precisamente quello straordinario spin off di Scene da un matrimonio che ha per titolo Un mondo di Marionette. Anche in quel caso, sesso e sentimento apparivano due mondi separati e inconciliabili, e anche in quel caso il sesso assumeva una valenza paradossalmente conservativa delle istanze sociali, di contenimento della passione, di salvaguardia dell’educazione subita e persino di tolleranza nei confronti del tradimento. La differenza sostanziale è che nel film di Bergman del 1980 il protagonista – che la morte della moglie la desidera coscientemente – riesce a trovare la propria valvola di sfogo nell’omicidio di una prostituta, liberandosi dalle imposizioni moralistiche grazie al contesto d’azione, altro rispetto a quello pubblico e domestico – che poi sono la stessa cosa –: un contesto “moralmente sbagliato”, peccaminoso, lurido: il bordello. Nessuna novità può dirsi neppure circa l’abitacolo dell’automobile concepito come monade narrativa, road movie interiore, in cui aspirazioni e frustrazioni, sentimento e ragione, inibizione e libertà, si accartocciano alla stregua di spirali leibniziane, di incoerenti pieghe barocche. La vera novità di Drive my car (meritatissimo premio Oscar agli ultimi Awards nella categoria “Miglior Film Straniero”) del geniale regista giapponese Ryûsuke Hamaguchi è che all’interno di questa monade si insinua uno sguardo, quello di Misaki, la giovane e introversa autista, la quale assiste all’evolversi degli eventi con silenziosa partecipazione, a sua volta preda di conflitti emotivi inespressi, sensi di colpa e solitudine. È l’intimo, rinnovato accordo tra guardante e guardato, tra spettatore e pubblico, che fa sì che la sospensione dell’incredulità venga riproposta e parimenti negata, consentendo lo scioglimento di quel groviglio di trame che sottende il blocco della creatività vitale e l’emersione di un nuovo sviluppo narrativo, il quale, lungi da rispecchiare un’oggettività incontestabile, viene vissuto come un’esperienza non vincolante, come una delle tante soluzioni possibili, uno degli infiniti mondi, e in quanto tale accettata.
Solo in quest’ottica, squisitamente sofistica, colui che aveva la pretesa di dirigere e padroneggiare freddamente il copione può finalmente immergersi nei sentimenti che lo sottendono senza finirne soffocato; come solo in quest’ottica il logoro espediente narrativo del teatro nel teatro si configura quale passaggio inevitabile e sublime. Se la realtà, infatti, si è trasformata in mera finzione ritualistica, in mero assoggettamento a una posizione sociale che anestetizza l’emozione per farla rientrare in una rigida rappresentatività di marca shintoista, lo spazio del palcoscenico si trasforma nella fucina di recupero delle emozioni, dove persino la parola perde progressivamente valore significante, prima attraverso il ricorso a tutte le lingue, per giungere infine al silenzio dei gesti, nel quale l’emozione può nuovamente sgorgare autentica, senza i filtri, senza la paura di compromettersi col dolore. Se quando Oto era viva la carnalità fungeva da fonte di ispirazione per il teatro, ora è il teatro a ispirare la carnalità: una carnalità non più fredda e meccanica, ma pregna di lacrime e di vita.
«Che fare? Bisogna vivere!», chiosa il personaggio di Sonja (Park Yu-rim) davanti alla platea gremita, «Noi vivremo, Zio Vanja. Vivremo una lunga, lunga sequela di giorni, di interminabili sere. Sopporteremo pazientemente le prove che ci manderà la sorte. Faticheremo per gli altri, adesso e in vecchiaia, senza conoscere tregua. E quando verrà la nostra ora, moriremo con rassegnazione e là, oltre la tomba, diremo che abbiamo patito, pianto, sofferto amarezza…” ».
Viene ora da pensare: non è anche questa accettazione? Forse. Si tratta però di un’accettazione dinamica, che non rinuncia alla miseria dell’esperienza e del sentimento; eco infinita di storie e personaggi che si penetrano e si separano nel tempo e nello spazio. Yusuke può allora interpretare di nuovo Vanja e, perché no, Vanja interpretare Yusuke.
Manuel Farina
Drive my car
Regia: Ryûsuke Hamaguchi. Sceneggiatura: Takamasa Oe, Ryûsuke Hamaguchi. Fotografia: Hidetoshi Shinomiya. Musica: Eiko Ishibashi. Montaggio: Azusa Yamazaki. Scenografia: Mami Kagamoto. Interpreti: Hidetoshi Nishijima, Tôko Miura, Masaki Okada, Reika Kirishima, (Park Yu-rim) Jin Dae-yeon. Origine: Giappone. Anno: 2021. Durata: 179’.