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Dieci anni senza Nino

Fu l’ultimo dei mostri sacri del nostro cinema ad andarsene. Dieci anni fa. Pochi mesi prima era toccato a Sordi, prima ancora, nel 2000, Gassman. La finestra sul cinema italiano si apriva sul vuoto.

manfrediA dire il vero di ricambio generazionale s’era cominciato a parlare sul finire degli anni 80, eppure ad oggi sembra difficile individuare attori che riescano a lasciare segni tanto profondi nell’immaginario collettivo. Sono mutati i tempi, decisamente. Il nostro cinema, in testa la commedia, racconta un’Italia diversa e diversamente problematica. E per non cadere nel facile gioco nostalgico della riesumazione dei morti per costruire una tesi che vede il presente subordinato al passato, sarà bene ricordare semplicemente il talento di un uomo che seppe ritagliarsi un posto di rilievo in un panorama già affollato di prime donne, con pazienza, attraverso interpretazioni intense, in cui la maschera di Nino Manfredi modulava comicità e dramma, ironia e malinconia, paesaggi dell’anima che sfaccettavano i suoi personaggi, spesso uomini mediocri che diventavano eccezionali nell’assecondare loro malgrado il destino (da Gli anni ruggenti a Pane e cioccolata a C’eravamo tanto amati).
Era nato da una famiglia di umili origini in un paesino della campagna ciociara, Castro del Volsci, nel 1921. Pur avendo seguito studi in les_aventures_de_pinocchiogiurisprudenza la passione per il teatro ebbe la meglio. Dall’Accademia nazionale d’arte drammatica alle prime esperienze nel teatro di rivista, poi la radio, le commedie musicali. Una gavetta solida prima di passare al cinema e lavorare, già negli anni 50 con registi del calibro di Bolognini, Pietrangeli, Steno, Loy, Zeffirelli, Risi. E poi Blasetti, Zampa, Magni, Wertmüller, Campanile, Corbucci, Scola, naturalmente Comencini, a cui presterà il volto di Geppetto nel classicissimo Le avventure di Pinocchio. Registi estremamente diversi per ideologia, stile, poetica, approccio alla macchina cinematografica, a conferma di quanto versatile fosse Manfredi, meticoloso e preciso nel vestire la parte, capace di coniugare esigenze autoriali e colori personali, forte di un bagaglio tecnico formidabile, anche, onestamente, nei territori più popolari (la pubblicità e la televisione, ad esempio). Uomo di spettacolo totale, che non si è fatto mancare nulla, a proposito di arte popolare, nemmeno il canto, esibendo una voce calda e melodica. Da Shakespeare a Tanto pe’ cantà, con egual passione. Fu anche doppiatore.
Fece incetta di David e Nastri d’Argento. A Cannes nel 1971 portò via il premio per la Miglior Opera Prima. Ci furono altre regie, tra le quali, per ricordare che un artista non muore con la morte fisica, ripescherò un film tra i meno noti, ma immerso nel fascino di una Venezia sulfurea e mai facile da inquadrare: Nudo di donna del 1981. A pescare nel mucchio difficile comunque che si rimanga delusi.

Alessandro Leone

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