Pubblichiamo di seguito la recensione vincitrice del Premio Adelio Ferrero 2015.
Fin dove arriva l’occhio, fin dove può arrivare? Che cosa può essere guardato e fino a che punto? Che cosa può essere visto, previsto? Questa la domanda che ci pone Il settimo continente (Der siebente Kontinent, Austria 1989), capostipite di quel primo ed emblematico capolavoro di Haneke che va sotto il titolo di Trilogia della glaciazione, trittico spietato che fa di una brutale eleganza la vera e propria cifra del suo cinema.
È l’occhio al centro del film: l’occhio studiato da Anna, la madre (Birgit Doll), nel suo negozio di ottica; l’occhio di Eva, la figlia (Leni Tanzer), nel suo fingersi cieca; l’occhio del regista, che inquadra troppo da vicino un paio di scarpe, una tavola imbandita, un carrello della spesa, indizi inequivocabili di una vita felice, lo stesso occhio che inquadrerà le forbici che taglieranno meticolosamente la camicia di Georg (Dieter Berner), o i disegni di Eva e l’ascia che distruggerà la specchiera. Che cosa ha visto il suo occhio, che è poi il nostro? E che cosa non ha visto, che cosa non ha potuto scorgere, tra un frammento di felicità e l’altro? In quale interstizio si celava la tragica insoddisfazione che ha condotto un’ordinata famigliola, con una vita tranquilla e sicura, a distruggere la propria casa e a togliersi la vita? Possiamo intuire, supporre, ipotizzare, a partire da discorsi frammentati, sparsi e poco significativi. Ma sono solo congetture, niente di più. Il visto nasconde il non visibile e l’invisibile resta, come un fuori campo che non può che essere tale, che deve restare tale: anche quando Anna, all’autolavaggio, non riesce a trattenere le lacrime, è un pianto represso, controllato, un accenno a un altro che c’è, ma che sta dietro, ben nascosto.
È lo stesso principio su cui s’impernia il secondo elemento della Trilogia, Benny’s video. A differenza di quest’ultimo, però, in cui il fuori campo diventa ciò che l’occhio del regista volutamente esclude (una violenza talmente esplicita e inconciliabile col suo contesto da dover essere censurata), Il settimo continente ci mostra ancora soltanto la contraddizione tra la patina ovattata di un agire quotidiano perfettamente tranquillo e l’esplosione finale di un’infelicità repressa. Se Benny’s video ci mostra i meccanismi che stanno a monte della censura borghese, Il settimo continente ce ne mostra il prodotto, nella sua inquietante compostezza.
Ma se l’occhio del regista, così come quello dello spettatore, è un occhio incapace di vedere, o che si rifiuta di guardare il tarlo dietro la superficie, allora è anche un occhio incapace di pre-‐vedere, di dedurre dal sintomo la malattia. E alla fine, per quanto si osservi, cercando la ragione di una catena di incredibili eventi, la ragione non si trova, non c’è. C’è il caso, o la sorte, o ancora la follia, come ci ricorda l’ultimo elemento del trittico: per quanto da vicino si osservino dettagli di vita, l’unica cosa che si può vedere è che, alla fine, s’incontrano, ma solo perché sono – è il titolo del terzo film – 71 frammenti di una cronologia del caso.
Se dunque, come sostiene il filosofo francese Maurice Merleau-‐Ponty, ogni visibile manifesta un doppio di invisibile “sotto forma di una certa assenza”, allora è proprio di quest’assenza che ci parla il regista, una presenza-‐assenza che è sia quella dell’occhio che guarda, sia quella del non guardato che si situa nelle pieghe del guardato, del non visibile celato nel visto. È la stessa presenza-‐assenza di Caché, o quella del rewind di Funny games. Perché, sembra ammonirci Haneke, con cruda ma innegabile efficacia, a questa duplicità, a questo gioco di specchi e di ombre, a questa lacerazione sempre aperta tra detto e indicibile è impossibile sottrarsi.
Monica Cristini