Gilles Paquet-Brenner è un regista piuttosto bravo, ma di una bravura laccata, accademica, da formalista integerrimo. È per questo che nessuno si ricorda di lui quando salta fuori il suo nome. Francese, avvezzo alle collaborazioni americano-canadesi, specializzato in sofisticati drammi (o thriller come in questo caso) che copiano e omaggiano al tempo stesso le più nobili produzioni d’oltreoceano: ecco in breve la sua carta di identità. Dopo Walled In – Murata viva (2009) e La chiave di Sara (2010), il nostro torna sul grande schermo con questo noir tratto, come suo solito, da un romanzo abbastanza popolare, Nei luoghi oscuri (2009) di Gyllian Flynn, quella de L’amore bugiardo. Insomma, siamo nel commerciale puro, seppur di alto livello.
Una Charlize Theron reduce da Mad Max – Fury Road (soltanto con i capelli appena un po’ più lunghi) interpreta la scontrosa Libby Day, una giovane donna che, molti anni prima, sopravvisse al massacro della propria famiglia. Grazie alla sua fondamentale testimonianza, il fratello all’epoca adolescente e dedito all’adorazione del maligno (Tye Sheridan) fu additato come unico responsabile del folle gesto, e incarcerato a vita. Libby ha sempre vissuto di rendita, di piccole donazioni, dei proventi di un bestseller autobiografico che lei non ha mai né scritto né letto. Ora però i soldi sono finiti, e Libby deve cercarsi un impiego serio: cosa non facile, d’altronde, per chi non ha mai lavorato, non ha mai imparato un mestiere e ha le movenze di una lesbica maschio dal berretto calcato a ore dodici. Una soluzione c’è: accettare l’invito di uno strano club di appassionati di cronaca nera, avvocati, giornalisti e studiosi di fatti sanguinolenti che vorrebbero riaprire il caso per condurre nuove indagini indipendenti. Non tutti si fidano di Libby, però: se la donna fosse in realtà una bugiarda? Se non avesse detto tutta la verità, o si fosse suggestionata credendo colpevole un innocente soltanto perché si trovava al posto sbagliato nel momento sbagliato?
Dark Places scava nei meandri oscuri della coscienza, quel lato ombratile della psiche umana dove i ricordi non seguono una linea retta, geometrica, fatta di simmetrie e corrispondenze, ma si inalberano nei tortuosi percorsi dell’inconscio, combinandosi in memorie stralunate, sprazzi di irrazionalità, collegamenti che all’apparenza non hanno nulla di logico. La psicoanalisi, come d’altronde avviene nei lavori precedenti della Flynn, non ubbidisce alla logica scolastica, e preferisce le ellissi, le estrapolazioni, le mancanze. È lo spettatore che deve cogliere la connessione tra le cose, e questa connessione profonda non fa altro che subordinarsi alle imposizioni dell’intrattenimento hollywoodiano. C’è il rimosso, ma è roba da poco. C’è l’atto mancato, che comunque non è così immediato. Il film di Paquet-Brenner è quasi perfetto nella sua omologazione, nell’aderenza ai codici del cinema thriller americano. Non è un difetto, non è una caduta di stile, non è una carenza intellettuale. Il regista francese muove con maestria le sue pedine, costruisce i personaggi con cognizione di causa, e se il finale mette a dura prova la sospensione di incredulità su cui si basa il genere, la sua capacità di costruire una pellicola con la giusta dose di suspense cancella le lacune con un colpo di spugna.
Sì, la suspense, questo concetto banalotto che andava di moda ai tempi di Hitchcock e che negli ultimi anni è stato gettato alle ortiche perché inflazionato, usato all’inverosimile, citato fino alla nausea da critici e studiosi di giallistica. Paquet-Brenner la suspense la crea, la pensa, la escogita, forse un po’ imitando Atom Egoyan, ma con risultati assolutamente più felici. Che diamine è successo quella notte di tanti anni prima, nel Kansas? Chi c’era davvero in quella casa? Pian piano, l’abile regista ci conduce in un viaggio omertoso nella campagna americana, quelle zone dimenticate, fatte di fattorie e appezzamenti, dove gli scheletri si nascondono ancora negli armadi. Forse la madre di Libby (Christina Hendricks, la “maggiorata” dell’odierno cinema americano, già ammirata in un altro film di provincia, Lost River) ha visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere; forse questo qualcosa è collegato alla scomparsa misteriosa dell’allora fidanzata di Tye Sheridan (Chloë Grace Moretz); forse il satanismo nel quale sguazzava quell’adolescente accusato dei delitti non era altro che un gioco da ragazzi… Forse, appunto.
Marco Marchetti
Dark Places
Regia: Gilles Paquet-Brenner. Soggetto: Gillian Flynn. Sceneggiatura: Gilles Paquet-Brenner. Fotografia: Barry Ackroyd. Montaggio: Douglas Crise, Billy Fox. Musica: BT, Gregory Tripi. Interpreti: Charlize Theron, Tye Sheridan, Christina Hendricks, Chloë Grace Moretz. Origine: Francia/UK/Canada, 2015. Durata: 113′.
https://www.youtube.com/watch?v=zJJjy2cZeLk