A sentire le dichiarazioni di Pupi Avati, più di quaranta film da artigiano (nel significato più alto possibile) passando dagli horror alla commedia, dai film di taglio storico agli interni familiari, Dante è il progetto della vita, un’idea che si è insinuata sempre più seducente tanti anni fa e cercava il momento giusto per prendere forma. Il momento è infine arrivato, dopo aver ‘frequentato’ il Vate nel privato dello studio, e dopo essere passato – e come poteva essere diversamente – dalla letteratura con la pubblicazione del libro L’alta Fantasia, il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante, che è poi lo spunto di partenza del film.
In quest’opera/vita Avati ci mette passione e desiderio, perché Dante non è un film didattico (anzi la sceneggiatura priva di puntelli disorienta chi non conosce il quadro storico) ma un lavoro pulsionale, quasi carnale, che guarda ad Alighieri con reverenza ma senza soggezione, cercando di scovare l’uomo prima del poeta, infiammato d’amore puberale e poi dalla partecipazione politica che lo trasforma in protagonista attivo della storia del suo tempo: le posizioni dalla parte dei guelfi bianchi, le feroci critiche al potere temporale della Chiesa, ma anche il trasporto ben più che platonico verso Beatrice, immaginata come divoratrice di cuori e senza veli. Come dire, la carne che trascende solo dopo nello spirito, o anche la poesia come effetto della trasfigurazione.
Il Virgilio di Avati è Giovanni Boccaccio (interpretato da Sergio Castellitto), intenzionato a raggiungere in un convento a Ravenna la figlia di Dante per lasciarle dieci fiorini a risarcimento del maltorto subito dal padre per mano dell’ingrata Firenze. Boccaccio, che nel frattempo sta stendendo il Trattatello in Laude di Dante, ripercorre la vita di colui che considera padre ispiratore, dall’incontro fatale, appena bambino, con la musa Beatrice, alle scelte politiche, per finire con gli anni dell’esilio. Diverse sono le persone incontrate lungo il cammino e che aiutano il poeta a ricostruire l’esistenza del Sommo, per consegnarne ai posteri tutta la grandezza.
Avati torna così al medioevo favoleggiato già ne I cavalieri che fecero l’impresa (2001), con le fascinazioni e le suggestioni che sullo schermo diventano paesaggi mentali ma anche fedeli ricostruzioni. Dunque ogni stradina, edificio, locanda, carretto o abito non sono solo elementi scenografici ma la manifestazione di un desiderio quasi fanciullesco di verità che, nelle inquadrature curatissime e ben fotografate da Cesare Bastelli, possa rimettere in vita gli ultimi scorci di medioevo quasi ad uso personale, come fosse un autentico salto nel tempo. E questo aspetto è ciò che più intenerisce del film, quel piacere sentito dell’immersione, che se arriva al pubblico è perché appartiene con sincerità al regista. Boccaccio, più che Dante (onestamente interpretato da Alessandro Sperduti), sembra esserne l’emanazione e per questo diventa l’alter ego del regista, l’esploratore innamorato di un amore figliale. Avati sembra davvero coincidere con Boccaccio nella ricerca di quel padre eternamente giovane (lo afferma sul finale il poeta) da comprendere per farne memoria e oggetto di culto.
Dante è un film profondamente avatiano, non solo per gli ovvi riferimenti alla letteratura alta, ma anche per quella capacità unica che ha il regista di combinarli con la cultura popolare, che nel cinema significa spesso adozione del ‘genere’, in particolare l’horror, altro amore di vita. E proprio l’horror è evocato dagli anfratti più nascosti della storia e delle storie medievali (come del resto fece pure Dante Alighieri ma allargando il raggio nella Commedia) assecondando l’immaginario collettivo che da sempre ha associato a quell’epoca irrazionalità magiche, confidenze con mondi luciferini, violenze e torture associate ai castighi e altre atrocità. Nel film questo universo di immagini (ma anche di odori) arriva di tanto in tanto proprio attraverso la messa in scena, alcuni oggetti (su tutti una bambola sfigurata), e la scelta delle luci o meglio delle oscurità, e poi dei suoni, in quei rari momenti in cui a prevalere non è la musica che, bisogna dirlo, è sin troppo invasiva, spesso pedante fino ad essere insopportabile quando cerca liricità sui versi in v.o. che accompagnano certi passaggi (anche inutilmente), quasi a rafforzare una materia già potente di per sé.
Se da un lato è rimarchevole il fatto che Avati abbia scelto di tenersi alla lontana da un biopic impossibile, va però tenuto conto che il film scivola quando tenta di interpretare le risposte emozionali del giovane Alighieri di fronte soprattutto a Beatrice, mettendo in relazione lo sguardo del poeta sulla donna con la creazione artistica, e non tanto perché l’opera dantesca è penetrata e si è radicata nella cultura popolare con una forza dirompente e creatrice (anche di immagini, come un cinema prima del cinematografo) – per cui il Dante di Avati sfida il Dante di ogni singolo spettatore -; ma anche perché il cinema stesso deve cercare una traduzione forzata, parziale, selettiva, arbitraria, e di fronte a certe opere, a certi autori (con Dante ci metterei Milton, Joyce, e pochi altri) non può che inchinarsi e mostrare limiti oggettivi.
Vera Mandusich
Dante
Regia e sceneggiatura: Pupi Avati. Fotografia: Cesare Bastelli. Montaggio: Ivan Zuccon. Scenografia: Laura Perini, Mattia Federici. Musiche: Lucio Gregoretti, Rocco De Rosa. Interpreti: Alessandro Sperduti, Sergio Castellitto, Enrico Lo Verso, Alessandro Haber, Nico Toffoli, Gianni Cavina, Ludovica Pedetta, Romano Reggiani, Carlotta Gamba, Milena Vukotic. Origine: Italia, 2022. Durata: 94′.