Per l’edizione 2019 Cortisonici Film Festival di Varese ci ha deliziato con un focus che in realtà – diciamolo francamente – noi amanti del genere aspettavamo da tempo e, gettandosi nei meandri infernali dell’horror contemporaneo in tutte le sue sfumature, ci ha regalato delle chicche cinematografiche da segnalare. Insomma, è’ nostro dovere farlo!
Le pellicole che Cortisonici ha proposto sono il frutto di collaborazioni e link con il TOHorror Film Fest di Torino e la casa di distribuzione Midnight Factory. Entrambi stanno contribuendo, da un po’ di anni a questa parte, a regalare al territorio italico visioni horror altrimenti irraggiungibili e quindi li ringraziamo infinitamente.
Creando una sorta di collaborazione un po’inaspettata, un po’ infernale e un po’ scanzonata con Marco Marchetti abbiamo deciso di scrivere di tre dei film “A sangue fresco” che, in qualche modo, ci hanno flashato, a cominciare da Revenge di Coralie Fargeat (Francia, 2017).
Pochi fronzoli, la questione di genere in questa tipologia di film rientra e rientra forte, e se una giovane regista, Coralie Fargeat, riesce a dirigere con maestria un rape and revenge movie cazzutissimo non posso che ringraziarla, da donna.
La giovanissima, bellissima, lolitissima Jennifer – nome scelto non a caso (Non violentate Jennifer, titolo originale I Spit on your grave di Meir Zarchi, 1978) – interpretata da Matilde Luz, ha in programma di trascorrere un week-end con il suo amante Richard in una villa desolata in mezzo al deserto; ad un certo punto qualcosa va storto, entrano in gioco inaspettatamente altri due cacciatori, Stan e Dimitri, e ovviamente, come si può ben immaginare, la povera Jen sarà vittima di uno stupro. Uno stupro raccontato con un occhio femminile è decisamente diverso rispetto ai classiconi della cinematografia, dell’atto in sé si vede ben poco, ma nella scena cardine di ogni rape and revenge movie che si rispetti, Coralie Fargeat si concentra sull’utilizzo dei suoni e il senso di disgusto arriva ugualmente, forte allo stomaco.
La Fargeat ti piazza dunque un personaggio femminile controverso, contemporaneo in una situazione controversa e contemporanea che ti costringe a sospendere qualsiasi tipo di pregiudizio e giudizio legati alla classica frase: “se l’è cercata”. Alla violenza carnale si aggiunge la violenza psicologica, subdola e meschina del suo amante che le offre dei soldi per chiudere la questione senza troppe ripercussioni. Jen non ci sta ed è qui il punto cardine di rottura, il passaggio narrativo dal rape al revenge. La regista ci sorprende nuovamente, non è la barbarie fisica che fa scattare la vendetta, bensì lo stupro della dignità intellettiva della protagonista. Inizia una corsa contro i suoi aguzzini e il personaggio di Jennifer si trasforma radicalmente da quello di lolita del XXI secolo a quello di vendicatrice seriale dotata di bazooka. Jen li fa fuori uno ad uno e, ovviamente, per ultimo proprio lui, Richard, quello che più di tutti ha violato la sua fiducia. Imperdibile la scena nella grotta, all’interno della quale Jen affronta visceralmente tutte le sue paure in un incubo allucinogeno da togliere il fiato che la porta a rinascere angelo sterminatore. Non da meno il lungo piano sequenza finale di caccia sanguinolenta e splatter tra Jen e Richard nudo ed infine inerme che le urla in faccia: “perché le donne devono sempre opporre resistenza?”.
La sceneggiatura fluida abbraccia voracemente la scelta delle inquadrature, prorompenti sono i primi piani, pochi i dialoghi, ma ben calibrati, una fotografia densa di colori saturi – in perfetto equilibrio tra il pop e il pulp – e una colonna sonora accattivante, tipicamente da discoclub.
E soprattutto litri, fiumi e laghi di sangue.
Altro film. Kamera O Tomeru Na! di Shin’ichiro Ueda (Giappone, 2017). Zombie contro zombie? Tutto quello che non ti aspetti ma in realtà vorresti vedere.
Ma cosa ho visto? Prima esclamazione a caldo e spontanea che mi è uscita fuori direttamente dallo stomaco come un pugno che ti attraversa da una parte all’altra del busto. Una figata! Unica risposta plausibile, priva di senso, ma efficace che si riesce ad associare. Arrivati ad un momento storico cruciale in cui non se ne può più di zombie e di film di zombie, il livello personale di scetticismo, lo ammetto, era elevato, ma fortunatamente mi sono ricreduta e non una volta sola.
Il film in questione ha fatto incetta di premi e riconoscimenti, scatenando entusiasmo durante l’anteprima al Far East Film Festival di Udine 2018, sbancando in Giappone e aggiudicandosi ben due premi, critica e pubblico, durante la scorsa edizione del TOHorror Film Fest di Torino. Il beneplacito che arriva da Nocturno chiude il cerchio perfetto dei presupposti affinchè il gioiellino di Shin’ichiro Ueda possa diventare un cult di genere.
La pellicola inizia dirompente con un unico piano sequenza di mezz’ora, in stile amatoriale, durante il quale una troupe cinematografica, capitanata dal regista Higurashi (Takayuki Hamatsu), sta girando un film sugli zombie commissionato dalla TV e che, improvvisamente, viene attaccata da un’orda di morti viventi e dulcis in fundo zombizzata. Fin qui nulla di nuovo. A chiudere quello che a tutti gli effetti viene percepito come un bmovie sugli zombie ci sono anche i titoli di coda che scatenano applausi da parte del pubblico, ma è qui che il vero film ha inizio e il punto in cui le mie parole è doveroso finiscano. La pellicola che ne segue prende velocità, siamo nel meta bmovie, o meglio, zmovie, e tutto ciò che ne deriva è un folgorante lavoro di maestria cinematografica, esilarante, a tratti demenziale, ma mai scontato.
Zombie contro zombie riassume, in 96 minuti, tutto quello che non ti aspetti, ma che in realtà desideri vedere da tempo, da sempre.
Tatiana Tascione
StellaStrega di Federico Sfascia (Italia, 2018)
Navigando per quella melassa brodosa che è la Rete (ormai introdotta dalla maiuscola come sineddoche di un intero indefinibile), ci si scontra con un esercito di penne ossequiose brandite ad alzabandiera verso StellaStrega dell’umbro Federico Sfascia. Siti come Quinlan o Cinelapsus, tanto per citarne i meglio indicizzati, sono tutto un profluvio di cerimoniosi elogi, di peana galantissimi all’indirizzo di un regista che è diventato esso stesso figura di culto. Quindi, vien da chiedersi, che cosa scrivere di un giusto a prescindere, uno che ha dalla sua la crème della critica da sottobosco, quella che scandaglia ogni spazio cinematografico alla perenne ricerca della novità, del ghiribizzo più capriccioso? Gente così non la batti. Eppure StellaStrega stimola riflessioni profonde. A suo modo. Anche al netto degli orrori artigiani che mette in scena, delle schifezze da compostaggio, del vomito, dei liquami e dei cascami, tutto abbaruffato in un grosso blob escrementizio. Anche e soprattutto a dispetto di questo. Perché poi, in StellaStrega, non c’è nemmeno una trama, se non quella di un droga party con spacciatori e puttane che viene bellamente interrotto da un’aggressione aliena con mostri senza forma, corpuscoli invisibili che invasano, trasmutano, squarciano le superfici corporali che occupano rendendole parte della merda generale. C’è dentro di tutto: L’invasione degli ultracorpi, Leviathan, Le streghe di Salem, qualche audacissimo ci ha trovato pure (e chissà se si tratta di una citazione voluta, o di un cortocircuito involontario) delle similitudini con il cinema di Flavio Moretti. Insomma la scusa è fare del cinema di esibizione, dove l’articolazione della sceneggiatura è cosa altra di fronte ad esigenze più elevate, come la febbrile corsa al riempimento.
Si parlava, con Sfascia, del concetto di trash. Concetto aulico e nebuloso, che non mette d’accordo nessuno, ma che anzi crea dissonanze e dissapori con quelli che lo usano. Perché Sfascia non la vuole sentire questa definizione per il suo cinema, che non è spazzatura, anche se lo sembra, proprio perché è volutissimo che lo sembri. È forse giusto scomodare il compianto Massimo Lavagnini, che nelle sue assennatissime elucubrazioni sullo schifo cinematografico, divideva il trash che fa ridere da quello che non fa ridere, cioè quello noioso che, facendo dell’ecdotica da circolino, si prende sul serio finendo per diventare zimbello di se stesso. Sfascia, più che un regista, è un artigiano, anzi un contadino e, come dice il proverbio, contadino: piede grosso, cervello fino. Non fa cinema, lui, ma cuce, appiccica, sutura pezzi di cose varie nella costruzione di un tessuto neurologico pieno di buchi, asimmetrie, bruttezze ingombranti. Ed è un gran furbo, perché così facendo, si rende esente da critiche: se il suo non è trash che fa ridere (involontariamente), perché tutto è ben congegnato e niente lasciato al caso, allora ne consegue che Sfascia è un regista capace di meraviglie. E quanta merda mescola alla merda, smontando e assemblando, cannibalizzando come si dice in gergo, i rimasugli di un film precedente, Alienween (2016), di cui StellaStrega è una versione meno emorroidale, cioè meglio cagata. Sì perché dietro c’è un’architettura che a suo modo sta su, regge tutto e molto bene, a partire da questi frammenti di orrore che si incastrano tra loro nella definizione di un cinema dove non c’è più differenza tra l’immondizia e l’arte. È persino difficile tenerne il conto, perché tutto scorre e si perde nel minutaggio fulminante, tra orrori, violenze e depravazioni assortite il cui nadir è forse raggiunto dal montaggio alternato tra una violenza sessuale (agita da una donna-aliena gocciolante umori su un uomo infetto) e arti segati con tripudio di carne e accompagnamento musicale. D’altronde lo sfascia-pensiero è l’aggiornamento delle manzoniane intuizioni che spinsero la borghesia colta a comprarsi le famigerate scatolette di merda d’artista, pagate a peso d’oro ed esposte come oggetti esotici e preziosissimi nei salotti della gente perbene. È da questa prospettiva che conviene avvicinarsi al film in esame, per comprendere che l’arte è il rapporto tra ciò che si produce e quel che si vende almeno nella misura in cui il pubblico è disposto a comprare. Dal cesso di Duchamp all’autorifacimento di Alienween, il cerchio si chiude. O meglio, quadra. Sfascia ha aggiunto un gradino alla storia delle arti visive, perché il ready-made lo fa di se stesso e non del prossimo. E resta comunque un democratico, perché mentre la merda manzoniana prende ormai muffa sulle scaffalature dei musei, lui si confonde con la gente, getta manciate di poltiglia a destra e a manca, spinto non tanto dal desiderio di essere ammirato come un eterno narciso, ma da quello di essere considerato uno come tutti. E questa è cosa nobile.
Marco Marchetti