Oscar per il miglior film a Moonlight e migliori attori non protagonisti Viola Davis per Barriere e Mahershala Ali sempre per Moonlight. Dopo le polemiche di un anno fa sull’Oscar “so white”, innescate soprattutto da Spike Lee scottato dall’esclusione del suo bel Chi-raq, il cinema afroamericano è tornato protagonista agli Oscar. Completa il quadro, proprio alla conclusione dell’era Obama, la statua di miglior documentario O.J.: Made In America di Ezra Edelman sulla lunga vicenda di O.J. Simpson, votato dall’Academy tra altri due documentari a tematica “black”13th e I’m Not Your Negro) nella cinquina di nominati. E non solo gli Oscar parlano afroamericano, come confermano il recentissimo Festival di Berlino e i film già in sala o in arrivo.
Barry Jenkins, al secondo lungometraggio, ha conquistato a sorpresa il premio più ambito, anche se la gaffe dell’organizzazione, con l’annuncio del premio a La La Land, seguito dalla correzione, ha forse un po’ smorzato l’impatto della vittoria. Del resto, il dramma in tre parti (e tre età) del giovane Chiron in un ghetto a Miami è meno spettacolare, carino e trendy del musical di Damien Chazelle che ha riportato in auge un genere che sembrava archiviato.
Moonlight e Barriere sono due film molto diversi nello stile, nei toni e nella collocazione temporale, ma fanno il punto, in maniera quasi complementare, sulla comunità afroamericana. Da una parte Washington guarda alla storia e alle aspirazioni, dall’altra si mette l’accento sulle contraddizioni, l’isolamento e la ricerca di identità. Protagonista Denzel Washington, con una controllata messa in scena teatrale (Tennesse Williams sembra vegliare dall’alto), una situazione più statica e grandi prove d’attore, Barriere racconta una vicenda familiare in un momento cruciale, dalla fine della segregazione in poi, tra il 1957 e il 1964 a Pittsburgh, Pennsylvania. Una vicenda di pochi personaggi, sette in totale, tutto tra casa, giardino e strada; un film molto parlato: Washington ha fiducia nel mezzo espressivo, il suo film precedente si intitolava Il potere della parole – The Great Debaters. Il capofamiglia Troy è la cerniera tra il passato e il futuro: figlio di un coltivatore di cotone, è partito verso nord da giovanissimo, ha vissuto il carcere, si è fatto una famiglia, lavora come operaio e punta ancora a crescere, diventando autista del comune anche se non ha la patente di guida. È un film intergenerazione, sul rapporto tra padre e figli, sul senso della famiglia, nonostante gli inciampi (l’alcool, i tradimenti, la violenza) e la contaddittorietà del protagonista. Troy non vuole piacere agli altri, insegna responsabilità e rispetto, vorrebbe essere all’altezza come marito e padre e vorrebbe che il secondogenito Cory non rifacesse i suoi errori e non si illudesse con il baseball, ha la consapevolezza del peso dell’essere nero, ma non capisce del tutto che qualcosa sta cambiando. Ci sono sogni che falliscono, le guerre, l’handicap, le morti di parto, i dolori, i problemi economici, in un film molto scritto e molto ben recitato, diretto con sobrietà dall’attore alla terza e sempre più matura prova registica.
Moonlight è quasi un Boyhood afrogay, una storia di formazione, ricerca di identità e rivalsa. Una storia di ragazzi lasciati soli, in un ambiente violento, con pochi adulti che cercano un vero rapporto con loro e possono rappresentare dei punti di riferimento. Siamo ai tempi nostri, almeno alla conclusione del percorso di crescita di Chiron, prima bambino fragile e insicuro, poi adolescente che cerca il suo posto ma preso in giro dai coetanei, infine giovane uomo segnato dal carcere (si svolge su circa vent’anni). In questo caso è un figlio abbandonato dai genitori, il padre sconosciuto, la madre tossicodipendente, inadeguata e assente. Si propone a fargli quasi da padre Juan, uno spacciatore di origine cubana che se lo prende a cuore. Anche in questo è avvenuto un mutamento dentro la comunità di colore: non solo i discendenti dagli schiavi, ma sempre più anche i nuovi immigrati, mentre la droga ha fatto irruzione e sta rovinando intere generazioni e il carcere resta un passaggio quasi obbligato. Un film lirico e aspro, di destini e di atmosfere, che si svolge in gran parte nel quartiere degradato di Liberty City dove è cresciuto anche il regista, un luogo dove si rischia di fare una brutta fine. Ottima la scelta dei tre interpreti di Chiron e di quelli dell’amico Kevin: più che la somiglianza fisica funziona la somiglianza di gesti e di sguardi.
Il carcere è il tema del documentario 13th di Ava DuVernay (la regista di Selma) sul 13° emendamento e sui carcerati in America: un Paese con una percentuale di popolazione detenuta altissima e buona parte sono afroamericani. Il carcere non tanto come punizione di crimini ma quasi una minaccia che incombe sulla comunità, quasi che la segregazione e i lavori forzati continuassero.
Il documentario Strong Island di Yance Ford, passato a Berlino nella sezione Panorama, torna, ricostruendo un caso giudiziario, a presentare gli afroamericani come vittima di un sistema dai risvolti razzisti. Il regista transessuale racconta di suo fratello, il ventiquattrenne insegnante di colore William Ford, ucciso nell’aprile 1992 dal diciannovenne meccanico bianco Mark Reilly per ragioni apparentemente insignificanti. Da allora non è stata fatta giustizia, solo un muro di gomma esemplificato nella telefonata iniziale all’ufficio del procuratore distrettuale. Nel frattempo, nell’attesa e nel logoramento che porta con sé, la famiglia Ford – borghese, madre emancipata e grintosa – implode. Elementi e ricordi personali, un tentativo di indagine, interviste a familiari, a comporre un puzzle minimalista ma implacabile e rispettoso, un dramma personale, familiare e politico. Mentre il regista piano piano viene allo scoperto con la sua nuova identità sessuale.
Dopo il passaggio a Berlino, sempre in Panorama, I’m not your Negro di Raoul Peck sarà film d’apertura del Fcaal – Festival del cinema africano, d’Asia e America Latina di Milano. Il regista haitiano di Lumumba, Sometimes in April e Moloch Tropical compie un’operazione molto complessa e ambiziosa, partendo dal saggio Remember This House, scritto nel 1979 dallo scrittore James Baldwin. Un testo breve appassionato e pieno di osservazioni ancora attualissime (“L’odio dei neri viene dalla rabbia, l’odio dei bianchi dal terrore”), un compendio della storia e della rappresentazione degli afroamericani lungo un secolo, con grande capacità di associare, confrontare, sintetizzare o confutare. Peck usa le parole di Baldwin (lette la Samuel L. Jackson) sopra un montaggio di immagini da telegiornali, trasmissioni tv, archivi privati, fotografie e una trentina di film. Le figure cardine dell’analisi sono Medgar Evers, Malcom X e Marthin Luther King, morti assassinati giovani (rispettivamente nel 1963, 1965 e 1968). I’m Not Your Negro ribadisce il ruolo consolatorio svolto dai film dei bianchi, utilizzando titoli dagli anni ’30 (Dance, Fools, Dance (1931) di Harry Deaumont, The Monster Walks (1932) di Frank R. Strayer, They Won’t Forget (1937) di Mervyn Leroy e Uncle Tom’s Cabin (1937) di Harry A. Pollard) fino al 1970 (Little Big Man di Arthur Penn e Soldier Blue di Ralph Nelson) con un’analisi provocatoria e stimolante. In particolare sottolinea la scena della piccola nera bianca Peona in La parte di fango – The Defiant Ones (1958) di Stanley Kramer, uno dei registi più impegnati e attenti a raccontare storie di afroamericani (suo anche “Indovina chi viene a cena?” sempre con Sidney Poitier), che si offende quando la madre di colore va a scuola a cercarla perché i compagni scoprono l’identità che fino a quel momento era riuscita a celare.
Tra pochi giorni arriva nelle sale Il diritto di contare di Theodore Melfi con Taraji P. Henson, Octavia Spencer, Janelle Monáe, Kevin Costner, Kirsten Dunst, Jim Parsons e Mahershala Ali. Melfi (noto per St. Vincent) recupera dal romanzo di Margot Lee Shetterly la storia semidimenticata di Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson, tre matematiche afroamericane che furono chiamate a lavorare alla Nasa agli albori dei programmi spaziali. Chiamate “computer umani”, diedero un contributo fondamentale al programma Mercury che nel 1962 portò in orbita John Glenn, il secondo uomo nello spazio dopo il sovietico Jurij Gagarin. Il risultato è un film molto classico nella fattura, ma coinvolgente, interessante ed efficace anche in una discussione con i ragazzi e le scolaresche sulla questione delle discriminazioni, ma non solo. È un film sull’inseguire caparbiamente un sogno dovendo superare degli ostacoli, che nel caso delle tre eroine sono l’essere donna e l’essere di colore. È un film sul non accettare supinamente che le cose restino come sono sempre state: “è assurdo anche che un uomo orbiti intorno alla Terra”, replicano a chi considera le loro richieste solo pretese infondate. Le tre amiche lottano separatamente per raggiungere obiettivi diversi, mantenendo però sempre forte il senso di comunità e combattendo per tutti, non solo per loro stesse. Il titolo italiano sfrutta il gioco di parole, mentre l’originale Hidden Figures si riferisce alle figure lasciare ai margini della grande storia, quella fatta dai Glenn (che è poi nella pellicola il primo a riconoscere e valorizzare le capacità di calcolo delle orbite di Katherine), e che tende a tralasciare chi non è in primo piano ma ha dato un contributo determinante. Il regista, senza voler strafare, riesce a sviluppare parecchi personaggi intorno alle protagoniste e si affida a un ottimo cast.
Nicola Falcinella