La giornata si è aperta con una mazzata sulla testa, una di quelle belle forti che ti lasciano stordito e in preda agli spasmi per almeno mezzora. La causa di tutto questo malessere è forse il film peggiore della rassegna, Nuits blanches sur la jetée, di Paul Vecchiali, che ormai superata la soglia fatidica degli ottanta realizza un’operetta onanista e intellettualoide come è tipico degli ottantenni. Se a questo si aggiunge che il nostro metteur en scène è un francese rigorosamente di sinistra, e che si ispira fuori tempo massimo ai canoni della nouvelle vague, potete farvi un’idea del risultato finale. E se non ci riuscite, guardate la foto qui sopra. Nuits blanches… era un film superato già trent’anni fa, è girato da un vecchio per un pubblico di vecchi nostalgici del nulla, e tutto quel che scorre sullo schermo è un’ora e mezza di pura contemplazione del vuoto: due tizi si incontrano di notte sul molo, è buio, non si vede nulla, lui si chiama Fedor e lei Natasha, tirano in ballo la letteratura russa e il senso della vita, dell’amore e forse pure della morte. Parlano ballano e cantano così per passare il tempo, continua a essere buio, recitazione brechtiana peggio de La sapienza, dialoghi da fuori di testa.
Indovinate un po’ da dove viene la sorpresa della giornata. Bravi, dalla Svizzera. Si tratta di Broken Land, di Stephanie Barbey e Luc Peter, che inserito in una delle tante sezioni parallele, la semaine de la critique, ha rischiato di farsi eclissare dai grandi nomi della rassegna propriamente detta. Questa pellicola è la versione pulita di Navajazo: siamo sempre sul confine tra Stati Uniti e Messico, un lunghissimo muraglione di metallo scorre per il deserto dell’Arizona, unica nota stonata in un paesaggio collinare sterminato, costellato da arbusti secchi e appezzamenti sabbiosi. Serve per tenere lontani i messicani, quelli buoni come quelli cattivi, quelli che scappano dalla fame e quelli che traggono profitto dal commercio di droga. I due registi svizzeri però non seguono le convenzioni, e anziché girare il solito filmetto accademico sui poverelli che si fanno impallinare dagli spietati ranger, registrano al contrario le reazioni degli americani che sul confine ci abitano. E che ogni notte si ritrovano a doversi sorbire orde agguerrite di spacciatori che varcano la linea di demarcazione tra i due mondi, il nord ricco e prosperoso, e il sud sfruttato e privo di risorse. Questo genera paranoia, i cittadini si barricano in casa, circondati da telecamere, sofisticati sistemi di sicurezza, e potenti armi sempre pronte per l’uso. Sapete che ci sono delle maneggevoli pistole che lacerano persino i giubbotti antiproiettile? E che un messicano puzza in modo diverso da un orientale, e che quindi riesci a riconoscere le diverse razze di immigrati nel pieno della notte? Basta puntare il naso da qualche parte e annusare. A quanto pare non tutte le vacche sono grigie al tramonto…
Ecco un’altra pellicola senza né arte né parte. Purtroppo, perché le potenzialità c’erano tutte. The Iron Ministry, di J.P. Sniadecki, è un documentario che segue le vite ordinarie dei pendolari di un treno cinese. Tre anni di lavoro per un tema scolastico, ben girato e ben montato, che si limita a mostrare una situazione non molto diversa da quella di Trenitalia, cioè gente che bestemmia e scatarra dove capita, gente che cuce le ciabatte a altra gente ancora che macella la carne nei corridoi. Per fortuna i bagni ci vengono risparmiati. Sniadecki getta alle ortiche la possibilità di realizzare una riflessione sulla modernità della Cina, a partire dai treni ad altissima velocità, le grandi opere ingegneristiche, il contatto difficoltoso e spesso contraddittorio tra gli strati della popolazione civile. In The Iron Ministry c’è il treno ma non c’è il viaggio, c’è la macchina da presa ma non la scoperta, c’è bravura tecnica ma non l’amore, il desiderio o la passione. E nemmeno il coraggio, a essere cattivelli. Sorge spontanea la domanda: ma questo che ci è stato a fare in Cina tre anni? Veniva da noi che lo mettevamo sul diretto regionale Napoli-Milano. In qualche ora di viaggio raccoglieva tutto il materiale necessario.
Piccola perla della rassegna, rubricata però tra i fuori concorso: Lisbon Revisited, portoghese, di Edgar Pera. Indossate gli occhiali 3D e preparatevi a un viaggio sotto droga in una Lisbona assolutamente irriconoscibile, guidati dalla voce fantasmatica di Fernando Pessoa che ci conduce, con estratti delle sue opere, tra piazza stralunate, fontane lacrimanti e alberi irrequieti. Non c’è trama, e nemmeno un senso logico, Lisbon Revisited è cinema sperimentale vecchio stampo, delirio di suoni e colori, straordinariamente amplificati dalla tridimensionalità, immagini e associazioni, accostamenti e fessure di significato. La capitale del Portogallo diventa una Las Vegas alla mescalina, dove tutto sembra il contrario di tutto: sono alberi, quelli inquadrati da Edgar Pera, ma in realtà assomigliano a grappoli di radici pendenti dal soffitto, come se la macchina da presa si spostasse nei meandri della terra, umidità, muffe e tenebra, e riprendesse le piante dal basso verso l’alto. Poi vengono le statue che sbucano dallo schermo come demoni grotteschi, non è acqua a sgorgare dai loro orifizi, ma sangue denso e vibrante, l’erba del parco è di un viola surrealista e gli animali allo zoo mutano livrea a seconda del ghiribizzo del regista. Oggi gli ippopotami sono rossi e le scimmie risplendono come catarifrangenti.
Ecco infine l’ennesima schifezza sudamericana, Los enemigos del dolor. Uruguay-Brasile, un’accoppiata perfetta. Arauco Hernandez, esordiente, gira una pellicola senza né capo né coda, indefinibile da ogni punto di vista, senza drammaturgia o narrazione, priva di logica o simmetria. Un attore tedesco giunge a Montevideo, stessi scenari urbani degli altri film latinoamericani in concorso, tutto è notturno, triste e fa schifo. Lui non spiccica un’acca di spagnolo, cerca la moglie che non ne vuole sapere di tornare in Germania con lui, infine ruba un portafoglio perché ha bisogno di soldi. Il derubato lo fa arrestare ma non lo denuncia e diventa suo amico. Allo strambo duo si aggiunge presto un terzo elemento, un signore barbuto che li segue entrambi, quindi un ragazzino scompare nel nulla e gli affiatati commilitoni partono alla sua ricerca. Un momento, non stavano cercando la moglie dell’attore? Forse. Uno esce di scena, l’altro rientra, il terzo fa da comparsa, e di nuovo tutto dal principio: corri, scappa, esci e insegui. Ma chi? Per andare dove? E soprattutto, perché il tedesco non parla spagnolo ma tutti si capiscono senza troppi problemi?
da Locarno, Marco Marchetti