Giornata abbastanza deludente, bisogna ammetterlo. L’unica sorpresa, indiscutibilmente meritevole di encomio, la si è trovata nel Concorso internazionale con L’abri di Fernand Melgar, documentario elvetico che, proprio come il conterraneo Viktoria, visionato e recensito due giorni addietro, contribuisce a sfatare il mito della Svizzera come terra dell’oro, dell’abbondanza e della libertà, dove il lavoro si trova sotto i sassi, le puttane sono felici di fare le puttane perché lo stato le protegge e gli immigrati si integrano nel tessuto sociale come se niente fosse. L’abri, cioè il rifugio, potrebbe addirittura considerarsi un film di fantascienza, non perché tratta di cose irreali, futuribili, stentatamente ipotizzabili, ma proprio perché tematizza situazioni che, dieci o quindici anni fa, erano appannaggio della science-fiction americana: ovvero l’idea, tra le tante, di un gruppo di rifugiati da ogni parte del mondo che bussa alle porte di un dormitorio pubblico di Losanna per ottenere un posto letto, un pasto decente e la possibilità di farsi una doccia. Naturalmente i posti letto sono limitati, i più scaltri ottengono una tessera speciale per passare davanti agli altri, e gli altri s’attaccano e dormono per le strade, rischiando di prendersi una multa per aver bivaccato su una panchina al parco o nel parcheggio della stazione. Melgar segue le vicende di questi disgraziati, alcuni dei quali europei in fuga dalla crisi, che lottano, si arrabbiano, e alla fine gettano la spugna chi tornando a casa propria, chi prendendo sterilmente a calci l’inamovibile porta del rifugio che l’ha rifiutato. Se non sei svizzero non lavori, se non hai la tessera non mangi. L’abri è la metafora di quello che sta diventando l’Europa in recessione, ed è la previsione di ciò che sarà presto l’Italia per gli stessi italiani: una società morta, fatta di carte fedeltà, servizi a punti e premi distribuiti senza criterio per accedere ai servizi del welfare. Da brividi.
Ecco, ora tocca parlare del film forse più atteso dell’intera rassegna, Cure – The Life of Another della svizzera Andrea Staka. Chi è costei, vi chiederete voi… Ebbene sì, è una cineasta che ha vinto il Pardo d’oro nel 2006 con un film intitolato Das Fraeulein, e che nel 2013 ha prodotto una pellicola storica innominabile, a firma di Thomas Imbach, ovvero Mary Queen of Scots, pure questa presentata a Locarno. Con Cure, la Staka si è probabilmente fatta della grasse risate nel prenderci tutti quanti per i fondelli, come d’altronde fanno spesso i registi pluripremiati alle kermesse cinematografiche che, forti delle loro onorificenze, possono permettersi qualunque bizzarria. Peccato che stavolta non ci abbia creduto nessuno, almeno a giudicare dai commenti a caldo spifferati dalla platea: a Dubrovnik, la Ragusa di Dalmazia, così è chiamata questa piacevolissima cittadina croata, ci stanno due ragazzette magre, mosce e pure antipatiche. Sono amiche per la pelle, ma poi si scopre che una è vittima dell’altra, che l’altra è mezza lesbica, e alla fine la più cattiva finisce ammazzata. La superstite la fa franca, e a quel punto entra nella vita della morta, parlando con il suo fantasma, frequentandone la madre e la nonna, e uscendo persino con il suo spasimante. Perché? Senso di colpa? Desiderio di identificarsi con la defunta, e quindi di entrare nella vita di qualcun altro come dice il titolo? Macché, il film è tutto un delirio di azioni non risolte, sguardi, ammiccamenti, vai dalla nonna, parla con la madre, mettiti il vestito della morta, parla ancora con la nonna e via discorrendo. Nessuna costruzione drammaturgica, nessun senso della sceneggiatura, personaggi che entrano ed escono di scena senza che nessuno di loro faccia qualcosa di così incisivo da giustificare l’ora e venti del metraggio.
Quindi un film fresco fresco dalla Malesia, a firma di un certo Liew Seng Tat, Lelaki Harapan Dunia (Men Who Save the World). In un piccolo villaggio un uomo chiede ai compaesani di aiutarlo a spostare una casa nascosta nel bosco perché vi possa abitare la figlia prossima al matrimonio. La costruzione è una catapecchia brutta, umida e puzzolente, ma tutti la chiamano la casa americana perché in origine era dipinta di bianco proprio come quella dove abita il Presidente degli Stati Uniti. Gli abitanti del posto la sollevano tipo palafitta e cominciano a trascinarla tra enormi sforzi. Peccato che una notte un vucumprà senegalese (ci sono anche in Malesia a quanto pare) scappi dalla polizia dopo un terribile pestaggio e si rifugi in questa stamberga che crede abbandonata: qui fa quello che i malesi, come gli italiani, ritengano che faccia un nero, cioè occupa abusivamente l’abitazione e girovaga per le foreste mangiando le banane. Una notte il drogato del villaggio entra nella casa per farsi una pera in tutta tranquillità, scopre il terribile negro scambiandolo per un demone e corre a dare l’allarme. L’imam della comunità, un uomo conciato come Gheddafi, invita alla ragione, ma nessuno ne vuole sapere e presto tutti si vestono da donna per spingere il pericoloso demone a rivelarsi: narrano infatti le leggende che i diavoli si aggirino nottetempo per fare violenza alle donne, meglio se vergini. Il soggetto era da commedia, ma la pellicola è talmente sconclusionata da perdersi per almeno una metà. Il regista getta infatti alle ortiche un soggetto geniale, tira tanti fili senza annodarne neanche uno, per ogni scena si attende un climax che in realtà non giunge e due terzi delle battute sono sfiatate.
Buzzard (l’uccello buteo in italiano, nonché termine dispregiativo dal significato variegato) è stato spacciato per il Wrong Cops della rassegna, forse soltanto perché qualche inclemente esegeta del pulp si è lasciato ingannare dalle foto di catalogo, dove c’è questo ragazzotto che mangia gli spaghetti e fa il cazzone con una maschera da satanasso. Il film di Joel Potrykus è, in realtà, una cosina triste e scioccherella che parla di un precario americano, faccia inespressiva di un uccello buteo, appunto, capelli lunghi e il pallino di fregare il sistema a ogni costo. Il nostro lavoricchia in banca, anche se di fatto vegeta in ufficio come un pubblico dipendente e nessuno lo licenzia perché i banchieri americani, a quanto pare, hanno gli occhi piccoli e il cuore grande. Un giorno il furbetto falsifica delle firme per intestarsi degli assegni, qualcuno gli suggerisce che potrebbe essere scoperto, e così si rifugia nella casa di un collega che mangia patatine e gioca con i videogiochi. Ma si può girare un film più cretino? Potrykus presenta il suo personaggio come il re della truffa, un artista del raggiro, uno che sa stare al mondo, ma alla fine tutto ciò che sa fare è commettere un reato a cui nemmeno uno studente di seconda media potrebbe pensare seriamente. Eppure Buzzard poteva essere un capolavoro: bastava potare quei dialoghi pesanti come zavorre assemblate la sera prima, sostituire il protagonista con un napoletano e conferire al personaggio la stessa tragica comicità di un Totò o di un Sordi. Per una volta che un italiano può dare lezioni di cinema…
da Locarno, Marco Marchetti