La ricerca di un soggetto, di un’argomentazione o di una tematica che sia non solo significativa, ma anche degna d’essere rappresentata in un progetto cinematografico, è da sempre una costante indiscussa nel contesto artistico del grande schermo; tuttavia, al fine di rendere tale ricerca più abbordabile e, sopratutto, meno dispendiosa, la macchina delle idee che anima la settima arte ha cominciato da tempo un’azione di riciclo e riutilizzo, puntando a soddisfare lo spettatore attraverso abili camuffamenti di prodotti già visti e semplicemente ridipinti.
Dreamland di Steve Chen è invece un’opera prima con un sapore nuovo, un ottimo connubio di forze in stretta collaborazione e chiaramente convergenti su diversi e vari piani di significato. Le sofisticate analogie tra sentimento, vita e ricordo si alternano con semplicità e naturalezza, dipingendo quell’incertezza e quell’instabilità che sono caratteristiche chiave del vivere terreno e della convivenza, che sia questa amorosa o meno.
Dreamland ha la rara capacità di rivalutare il concetto stesso di memoria in funzione di un presente pieno di interrogativi irrisolti e che sembra tornare ciclicamente agli sbagli già commessi. Sotto questa nuova prospettiva il passato si sveste dal malinconico “ciò che è stato e che più non sarà” e, inaspettatamente, muta nell’idea di ricordo visto come certezza, quella certezza dolorosa che, tuttavia, sappiamo essere vera e dalla quale – pertanto – possiamo imparare.
É proprio dai ricordi di una storia d’amore che una volta funzionava che Lida – protagonista della pellicola – si scopre vittima di un presente sterile e scandagliato dalla noia del rapporto in declino col fidanzato Sokun, dalla consuetudine della quotidianità lavorativa del suo impiego come agente immobiliare a Phnom Penh, e dalla ricerca di un futuro che sembra proporre cambiamenti troppo rapidi perché lei possa accettarli o anche solo comprenderli.
La domanda a cui Dreamland tenta di rispondere è di sconvolgente importanza: a cosa possiamo rifarci quando il nostro presente, così ansioso di diventare futuro, si trova a fare i conti coi ricordi del passato? La migliore risposta è forse il silenzio di Lida, un silenzio che richiama la storia stessa della Cambogia in un processo di originale ritorno alla memoria, personale e collettiva.
La travagliata storia d’amore tra i protagonisti è dunque solo una mera rappresentazione di quanto il film punti sinceramente a esprimere, così come il mestiere di Sokun – il fotografo – è solo l’ennesimo richiamo al passato, a ciò che viene immortalato in un’immagine e che tale resterà per sempre, come accade in un ricordo per l’appunto.
Questa l’opera prima di un regista-architetto, che si è dimostrato capace di onorare il suo mestiere, progettando e costruendo un film di spiccata maturità e importanza.
Dreamland – English Version
The research of a script, a reasoning or a topic that may considered not only meaningful, but also worthy enough to be represented in a movie, has always been a permanent an uncontested feature in the artistic context of cinema; nevertheless, in order to make this research more accessible and, above all, less expensive, the machine of ideas that animates the seventh art has started, for too long a time, an action of recovering and recycling, aiming to satisfy the public through a clever disguise of famous or already well-known products.
Dreamland, by Steve Chen, is – instead – a first work of a different taste, a smart marriage of collaborating forces that touch several different areas of meaning.
The sophisticate analogies between feelings, life and memory easily alternate without any effort, painting on the big screen that feeling of uncertainty and instability that characterize the life and the coexistence of two human beings, whether such a coexistence refers to friendship or to a relationship.
The innovation of Dreamland consists in the ability of revaluing the act of remembering in relation to a present full of unresolved questions and that looks to go back cyclically to past mistakes. Under this new perspective “the old” gets undressed of the usual melancholy “what’s gone will never come back” and, unexpectedly, turns into the idea of the memory seen as a certainty, that kind of certainty which could even be painful, but that we know being true and from which, therefore, we could still learn something.
It is exactly from the memories of a lovely relationship that once worked that Lida – the protagonist – finds herself to be the victim of a sterile present, corrupted by the boredom of the relation she has with her boyfriedn Sokun, by the jail of her job as estate agent in Phnom Penh and by the research of a future that propose changements that develop too fast to be accepted or even comprehended.
The question to which Dreamland tries to answer is impressive: “What can we turn back to, when our present, so anxious to become future, finds itself struggling with our past?”.
The best answer, perhaps, is Lida’s silence, a silence that recalls the history of Cambodia, in an original process that recollects personal and collective memories.
The troubled relationship between the main characters is, therefore, just a mere representation of what the movie is sincerely trying to express, just like Sokun’s job – the photographer – is just another way to go back to the past, to what lives immortal in pictures and that will remain so forever, just like in photography, just like in memories.
Here it is the first work of an architect/film-maker, who proved himself able to honor his job, projecting and building a movie just like a house, with patience and maturity.
From Locarno, Mattia Serrago