Bene, si parte con l’Italia di Mister Universo, della coppia italo-viennese Tizza Covi e Rainer Fimmel. Storia di storie circensi, quella del domatore di bestie feroci, della sua compagna contorsionista, delle loro famiglie e di un Mister Universo del 1957, tale Arthur Robin, che dopo la fulgida carriera di bodybuilder e forzuto da circo, si è ritirato a fare il guardiano presso un parco di Varallo Pombia. Vi chiederete, embeh, che ce ne frega? Ce ne frega eccome, perché c’è un filo che lega indissolubilmente le storie dei primi a quella del secondo, e cioè un ferro che il culturista aveva piegato con la sua incredibile forza muscolare per donarlo al domatore allora bambino. Quel ferro è diventato un portafortuna, che però ora è scomparso. Il domatore deve assolutamente cercare quell’Arthur Robin perché gliene prepari un altro. Starordinaria persona, questo ex Mister Universo, uno che a ottantotto anni suonati fa ancora i sollevamenti alla panca con mezzo quintale di metallo, e che quindi non potrà (forse) mancare alle richieste… Comincia un viaggio nella memoria, che è anche e soprattutto un viaggio nei retroscena del circo, nelle vicende umanissime dei suoi personaggi che, cosa rara per un documentario italiano, non cadono mai nel banale, ma si insaporiscono, per così dire, aprendosi alle nuance, alle peculiarità, alle stranezze. I dialoghi sono tutti un: “Cazzo, cazzo… ma vaffanculo!”, merito del protagonista, un pasciuto ragazzotto che finisce per diventare una specie di inconsapevole mattatore. Ci sono gli spostamenti con la macchina per strade piovose, la campagna, il fango, i caravan affondati nella palta, la ghiaia, il sudore, la tristezza, le fattucchiere che bruciano candele contro il malocchio, le zingare reali o presunte, d’improvviso una vecchia canzone inonda l’abitacolo con le sue note ed è bellezza immediata. Insomma, Mister Universo non dovrebbe nemmeno piacere, eppure piace; vorrebbe raccontarci una vicenda poco interessante, già rappresentata mille volte al cinema come in letteratura, ma non è spettacolo del circo e nemmeno melodramma da dietro le quinte. Il presente e il passato si congiungono, le generazioni si incontrano in un momento di profano lirismo: un ferro che si piega, la grandezza del fisico che diventa spessore morale dei suoi attori…
La rivelazione della giornata è però il serbo Svi severni gradovi (All the Cities of the North), di Dane Komljen, trent’anni giusti. Un caseggiato vuoto, bianco, asettico e senza mobili. Due tizi che lo devono risistemare. Al mattino corrono in giardino avvolti dalle coperte, sembrano fantasmi. Mangiano bacche, tingono una sedia di rosso per poi sfasciarla. Acqua. Luce. Verde. Un cielo oscuro. Est. Il film è soltanto questo, minimalismo alla Bob Morris, materia informe che non deve essere plasmata, ma che si plasma da sé nel suo esserci. È quasi un ready made, una cosa strana messa lì come per caso, la macchina da presa che alle volte, insieme al suo regista, compare in scena intrappolando quegli attimi che nessuno vorrebbe vedere, momenti morti, frammenti di dialogo che dicono tutto pur non dicendo niente. Chi sono questi due uomini che dormono assieme, sfiorandosi con un’ambiguità appena sottolineata? Fratelli, compagni, colleghi o amanti? Mistero. Svi severni gradovi è geometrico, implacabile, perfetto nelle sue cesellature. È una storia che non ha bisogno dell’inizio o della fine, ma che si accontenta di quello che sta nel mezzo.
Ecco che una bella traversata ci conduce dritti al Portogallo di Correspondencias (Rita Azevedo Gomes): che dire? Cinema portoghese puro, intellettuale (o intellettualoide?), patinato, forse velleitario ma senz’altro poetico. Incrociate Joachim Pinto con Pedro Costa: dal secondo l’ermetismo, dal primo la leggerezza. Immagini di mare, montagne, campagna. La natura, degli interni piacevoli, cortile ammantati di piante, abitazioni ospitali, salotti dignitosamente arredati. Come figure senza identità, alcune persone leggono la corrispondenza di Jorge de Sena, poeta costretto all’esilio e che qui rivive attraverso la splendida iconografia della sua regista. Certo, due ore e mezza di film che non racconta nulla sono tante, l’operazione è complessa, concettuale, rischiosa, ma alla fine resta sempre il fascino indescrivibile di chi fa cinema pensandolo come una grande seduta di yoga. In fin dei conti è questo che diventano gli spazi, siano essi i divanetti su cui si riposano i suoi non protagonisti, siano i silenzi rumorosi del mare, le spiagge, le rocce: momenti dedicati alla contemplazione, allo zen, allo spirito.
Facciamo tappa in Bulgaria con Slava, di Kristina Grozeva e Petar Valchanov, Concorso internazionale. È al grottesco che i due registi guardano per raccontare la corruzione del loro paese, ma non il grottesco ungherese, ma appunto quello bulgaro, slavo, russo: fatto di piccolezze, eccentricità, siparietti talmente ingombranti che alla fine non fanno nemmeno ridere e lasciano con l’amaro in bocca. Un ferroviere balbuziente, ignorante e abbastanza sporco, trova sui binari un sacco di soldi. Che fa? Se li porta via? Macché, li consegna alle autorità. L’addetta all’ufficio stampa del ministro trova un eroe da gettare in pasto all’opinione pubblica, ma il ferroviere pianta un gran casino e dice al ministro quello che tutti sanno, ma che non hanno il coraggio di dire: e cioè che in Bulgaria si ruba. Scandalo, imbarazzo, puzza di sudore. Il poveraccio diventa insistente, soprattutto dopo che gli fanno sparire l’orologio, e d’improvviso, da eroe dell’anno, da personaggio positivo capace di risollevare le sorti del paese grazie alla sua trasparenza d’animo, ecco che si trasforma in una spina nel fianco da sistemare a dovere. La Bulgaria che i due registi raccontano è un cesso traboccante escrementi, tutti sono cattivi, folli, egoisti e si burlano dei disgraziati. Il tizio vuole indietro il suo orologio, ma il governo non ci sta e lo mena. Il ministro si toglie scarpe e calzini durante la conferenza stampa, quindi prende la pedana per apparire più alto del suo ospite. L’addetta stampa parla al telefono mentre il ginecologo le ravana tra le gambe, e già queste cose bastano a rendere il film un mezzo capolavoro. Ma è forse la lingua, il bulgaro, a fare la differenza: è pura poesia.
L’Egitto ci fa una magra figura. Aqkhdar yabes (Withered Green) di Mohammed Hammad, Cineasti del presente, è una mezza ciofega da scuola di cinema cerebrale: ben girato, ben montato, ben fotografato ecc., ma nulla più. Qui c’è un contratto matrimoniale da siglare, un uomo, uno zio o un parente che deve mettere una firma ma che per qualche motivo non si trova… o non vuole, o non gliene frega niente… una ragazza che se ne va in giro per queste strade lerce, prende dei tram lerci, va a lavorare in una pasticceria appena un po’ più pulita di tutto il resto, e poi torna a casa. Il giorno dopo ancora così: strade, tram, negozio, casa. Lei sembra la Boldrini con il velo, a un certo punto accende la televisione e senti una predica araba. Allora capisci tutto, e tanto ti basta. Francamente non si intuisce dove voglia andare a parere questo regista con i suoi primi piani sacrali, scopiazzature di Antonello da Messina (certo il paragone è troppo aulico, qui parliamo di un Mohammed Hammad…), le faccine da donna bastonata, i dialoghi funzionali che nulla aggiungono a quanto già si evince. Femminismo spicciolo? Mélo terzomondista per insegnanti di SEL? Mah…
Ecco che torna la Romania, fresca di vittorie a Cannes e Berlino. Il film è Inimi cicatrizate (Scarred Hearts) di Radu Jude, quello di Aferim! Qui siamo in un sanatorio sul Mar Nero, dedicato ai malati di tubercolosi ossea, cioè una malattia che ti sbriciola le ossa piano piano, ti riempie la pancia di pus e ti fa morire tra atroci sofferenze. L’anno è il 1937, la storia, biografica, è quella dell’ebreo scrittore Max Blecher, scomparso prematuramente a soli 29 anni. La pellicola di Jude è glaciale, perfetta, matematica. Formato 4:3, da intenditori finissimi, fotografia vagamente sgranata, come da vecchia cartolina, corridoi, terrazze, stanzoni stipati di malati, morte, merda, agonia, tutto l’armamentario del dolore. C’è il Cristo morto del Mantegna, e tanta Nuova oggettività tedesca, Georg Grosz, Otto Dix e tutta quella generazione di pittori post-bellici che effigiarono l’Europa decadente degli anni trenta. Il pregio del film non è però il suo formalismo, ma l’inconsapevole professione di ateismo alla quale i suoi personaggi finiscono per aderire. Tra una visita e l’altra, strapazzati da un dottore, da un ortopedico, da un anestesista, illusi, sbeffeggiati, ingessati, i disperati degenti elaborano il loro lutto senza mai invocare Dio. No, Dio non c’è, non esiste, e anche se esistesse non avrebbe certo intenzione di migrare dai suoi imperscrutabili intermundia ed intercedere per i comuni mortali. Non c’è bisogno di invocarlo, né di accendergli candele votive o dedicargli una processione propiziatoria. Niente di ciò che facciamo ha senso: amiamo, soffriamo e moriamo a caso; la malattia, come la guarigione, la salute o la consunzione, non dipendono dalla fede né da qualche misterioso disegno divino. Noi siamo qui per un errore indefinibile, sembra comunicarci la pellicola, pensiamo di essere speciali, di possedere una qualche unicità, ma alla fine, come tutto, torneremo alla polvere.
Ostatnia rodzina (The Last Family) di Jan P. Matuszynski è un’operazione un po’ strana, come di chi tenta di fare il passo più lungo della gamba rischiando di inciampare. La vicenda, biografica pure questa, segue la famiglia del noto pittore polacco Zdzislaw Beksinski, un surrealista alla Dalì. Ci muoviamo nella Polonia comunista e post-comunista, ma la storia non c’entra nulla, non appare nemmeno relegata sullo sfondo, e se non fosse per l’ambiente che muta, la pellicola che lascia il posto al digitale, il televisore che si appiattisce, un computer che appare in sordina, non percepiremmo nemmeno lo scorrere del tempo. Il che è abbastanza curioso, perché il film non parla tanto del pittore, né delle sue tele o delle sue ossessioni, quanto del figlio schizzato, autolesionista e violento. Il ragazzo spacca tutto, e il padre sta zitto. Il ragazzo tenta il suicidio, e il padre sta zitto. Il ragazzo rompe i coglioni al mondo intero e il padre sta zitto. In fin dei conti è malato, poverino… Si direbbe un film sull’impotenza del padre o sull’onnipotenza del figlio, e infatti è così ma fino a un certo punto. In realtà il messaggio del film non è molto diverso da quello rumeno, e cioè che dobbiamo morire tutti nei modi peggiori, e Matuszynski rappresenta la morte di ciascun componente della famiglia con un’ironia che, a ben pensarci, è l’unica forma di sopravvivenza. L’andamento è noiosetto, si parte da una cosa per dirne un’altra, ma il finale tira le somme alla perfezione.
Altra rivelazione da festival, O ornitologo di Joao Pedro Rodrigues, Portogallo. Qualcuno di voi lo ricorderà per Il fantasma (2000), all’epoca selezionato a Venezia e distribuito persino su suolo patrio. In questo suo ultimo lavoro seguiamo la vicenda di un ornitologo che cade nel fiume e si perde nel bosco. Due cinesi lo legano come un salame (o come San Sebastiano) poco prima di accingersi a castrarlo. Ma lui non ci sta e scappa. Corre corre corre, di notte incontra dei satiri che fanno festa nel bosco. Uno gli piscia in testa ma lui fa finta di niente. Il giorno dopo incontra un pastorello che ciuccia latte dalle tette di una capra. L’ornitologo se lo incula e poi, per un disguido, lo ammazza a coltellate. Corri corri corri, l’uomo incontra le femen a cavallo (delle amazzoni, si suppone), che gli sparano e lo fanno resuscitare. L’ornitologo però è cambiato: prima si chiamava Fernando, adesso Antonio come l’omonimo santo. Rodrigues è un formalista, e concepisce un film di pure immagini, belle, delicate, poetiche come la luna, il fiume, il bosco ammantato di nebbia e pioggia. Le citazioni sono tantissime, disseminate in ogni inquadratura, si parte dalla cultura classica per arrivare alla mistica cristiana, dall’ornitologia alla psicoanalisi lacaniana con il doppio, lo specchio, l’immagine di sé… qualunque cosa ci vogliate trovare, state certi che la troverete. C’è persino la selva oscura con animali carichi di significati simbolici: l’invidia, la lussuria, la superbia. Però sono tutti finti. Bellissimo.
El auge del humano (The Human Surge). Eduardo Williams, argentino, classe 1987. Mah, si tratta di un’opera prima con molti dei difetti dell’opera prima, eppure sorprendentemente intelligente. All’inizio non ti sembra, ma poi ci ragioni e capisci che questo tizio farà strada. L’idea è un po’ quella di rifarsi allo stile di Post tenebras lux ed epigoni, inquadrature lunghe, stralci di vita, di conversazioni, più storie che (non) si incastrano, un viaggio tra le emozioni, i sentimenti, la geografia. E le stesse immagini, foreste, favelas, corpi bruti e sudati. Alcuni ragazzini fanno sesso (esplicito) in cam, qualcuno succhia il pene a qualcun altro, qualcun altro ancora se lo trastulla in compagnia. Poi la macchina da presa entra in un formicaio e ci rimane per un bel cinque minuti: formiche, cunicoli, terra, buio. La macchina esce dall’altra parte del mondo, nelle Filippine. Alcuni ragazzi fanno il bagno in questo laghetto immerso nella foresta. Luce naturale, leggerezza, vegetazione. Alcune lungaggini sono un po’ gratuite, per così dire altezzose, ma la mano dell’artista c’è. Non raccontiamoci balle.
Afterlov, Sergios Paschos. È il greco della kermesse, niente che possa neanche lontanamente competere con la nouvelle vague di Miss Violence o Kynodontas. Un uomo non accetta che la fidanzata l’abbia scaricato, allora affitta una casa da ricconi e ce la chiude dentro. Vuole sapere a tutti i costi perché l’ha lasciato. Lei però non sembra preoccupata dalla cosa, cambia continuamente d’abito, è tutto un chiacchiericcio vacuo e stupido, cose ripetute che non dicono niente, cose intelligenti che non vengono approfondite, situazioni superflue e comunque tirate per le lunghe. Il cinema greco è tutt’altra cosa.
Da Locarno, Marco Marchetti