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Corn Island: pánta rêi

corn-island-locandinaTra l’Abkhazia e la Georgia, due paesi che vivono in conflitto da quasi vent’anni, scorre il fiume Enguri. L’impeto che ne contraddistingue il flusso nella stagione autunnale muove terra e detriti che originano isole temporanee, terre fertili che in primavera vengono occupate da contadini che le ingravidano con sementi, fino a quando, dopo il raccolto, un altro autunno spazzerà via l’insediamento. Stagione dopo stagione, la natura, indifferente alla presenza umana, ripropone ciclicamente l’emozione della nascita e il turbamento della morte. Creazione e distruzione paiono concetti senza significato quando domina l’unica idea di un costante divenire, nonostante l’apparente ricorrere dei cicli vitali.
Per questo il contadino che in Cron Island occupa una terra di nessuno in mezzo all’Enguri, aiutato dalla nipote sedicenne, è consapevole dell’impossibilità di dominare gli elementi e di potersi unicamente adattare con rispetto a leggi non negoziabili. Attracca la sua barca a remi e, giorno dopo giorno, scaldato dal sole primaverile, costruisce una casa che sa tanto di insediamento preistorico. Con la pazienza corn-island-2dell’agricoltore, semina mais, attende nel silenzio i germogli, comunica con la nipote con la forza dello sguardo. Dalle sponde del fiume la follia della guerra di tanto in tanto irrompe con boati surreali. “Di chi è questa terra, nonno?”. “Di chi l’ha creata” – risponde il vecchio, consapevole che c’è chi si ammazza per quella terra. Gli uomini al di là della foresta sparano, come apparizioni macabre tagliano di tanto in tanto l’orizzonte su scafi a motore, mettendo a rischio la lingua di pace che pare un miracolo in mezzo all’inferno.
Tutto qui il film di Giorgi Ovashvili. Una trama che si risolve senza intrecci, dilatata in inquadrature che trattengono senza timore del tempo l’ineffabile mutamento della natura, prima giaciglio accogliente dopo inospitale dimora. Panoramiche lente diventano soggettive della brezza che spira leggera tra le assi in legno, che diventano la prima casa dell’uomo, e le piantine di mais, che ne sono il primo raccolto. Lui e lei padroneggiano gli elementi e si fanno liquidi e terrestri, aerei e fiammeggianti, soprattutto la bambina quando diventa donna e brucia alla visione di un uomo fuggito dall’altro mondo, un naufrago ferito e che preannuncia la fine del paradiso, l’arrivo di una nuova stagione di corn_island1sofferenze.
Tutto è semplice in apparenza in questo film poetico e violentissimo nelle sue metafore schiette. L’incanto è temporaneo, la simbiosi anche, mutano i colori e il vento soffia con suoni diversi. Il vecchio non è il monaco buddista di Kim Ki-duk che, primavera-estate-autunno-inverno e ancora primavera, incarnava i ritmi della vita in simbiosi con la ciclicità della natura. L’isola era in mezzo a un lago: tutto si rinnovava perché la ratio della natura rimanesse immutabile e, per gli uomini, forse incomprensibile. L’Enguri invece scorre, porta vita e la toglie indipendentemente dalle fatiche dei suoi abitanti. E’ uno Spirito inconoscibile che si rivela potente in un finale splendido e straziante, gonfio di piogge che per ricreare ancora la vita devono cancellarne le tracce (in apparenza).
Giorgi Ovashvili non ha bisogno di spiegare ciò che già le immagini evocano, non asseconda l’orecchio viziato dello spettatore con dialoghi superflui, non ha bisogno di voice over “trascendentaliste” alla Malick. Tutto è sublime e basta e avanza. L’occhio vuole e ottiene la sua parte. Il cervello anche. Immergersi nello stesso fiume è impossibile, tutto scorre e noi scorriamo con il tutto. Dura da accettare.

Alessandro Leone

Corn Island

Regia: Giorgi Ovashvili. Sceneggiatura: Nugzar Shataizde, Giorgi Ovashvili, Roelof Jan Minneboo. Interpreti: Ilyas Salman, Mariam Buturishvili, Tamer Levent. Origine: Georgia, 2014. Durata: 100′.

https://www.youtube.com/watch?v=b5Fc9ydpP_Q

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