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Contagious – Epidemia mortale

maggie locaQuale potrebbe essere la principale colpa di un padre la cui figlia è stata contagiata da una terribile malattia del sangue, che la rende aggressiva, pericolosa, e nella fase terminale vittima di una irrefrenabile voglia di uccidere? Quale potrebbe essere il suo peggiore rimorso, se non quello di non averla protetta prima? E di non fare nulla, adesso, per evitare il suo confinamento in un manicomio dantesco, una fossa piena di appestati che si sbranano l’uno con l’altro aspettando di morire. Da questa riflessione, che riguarda una singola famiglia, il suo lutto privato, ma che finisce per farsi sineddoche di un’intera comunità, muove l’esordio registico di Henry Hobson, artigiano specializzato nella realizzazione e nel montaggio dei titoli di testa. Una riflessione di per sé drammatica che di rado è stata oggetto di analisi nella più o meno vasta filmografia epidemica, un genere nel genere reo di ridurre sovente la tragedia dell’infezione, e l’ineluttabilità della trasformazione del malato in qualcosa di sostanzialmente raccapricciante, alla strenua lotta di resistenza dei non contaminati contro una masnada di infetti. Hobson non ci sta, e preferisce l’approfondimento emotivo all’esplosione della violenza, la malinconia della contemplazione al movimento, all’ostinazione dei sopravvissuti, alla ossea pervicacia di chi non accetta la propria distruzione. Per questo costruisce la sua visione dell’apocalisse attraverso una geometria sorprendentemente priva di innovazione, ricondotta alle sue linee principali, al canovaccio, e spolpata per così dire dal contorno, dalle superfetazioni.

AP FILM REVIEW MAGGIE A ENTHobson sta all’elegia quanto un Fresnadillo o un Boyle stavano all’epopea, è minimalista forse più di un McCarthy, con la sola differenza che se i personaggi dei succitati erano ancora mossi dall’elan vital, dallo scopo che li costringeva all’ottenimento di qualcosa, l’Arnold Schwarznegger di Contagious è succube del suo stesso spleen, dell’umore nero che lo rende freddo e privo di speranza. È un corpo ridotto alle sue forme essenziali, quello dell’ex culturista austriaco, avviluppato dalla sua camicia da campagnolo, intabarrato in una barba irsuta che lo nasconde e lo protegge come la corazza di un istrice. Il destino di sua figlia Maggie (Abigail Breslin) è stato segnato nel momento in cui un necroambulist, cioè un morto che cammina, l’ha aggredita morsicandola su un braccio. Non c’è cura all’infezione, il malato cade a pezzi, marcisce giorno dopo giorno, e in capo a qualche settimana finisce per diventare un cannibale dalla pelle rigonfia e nerastra. Per questo il premuroso genitore della ragazza non può far altro che prendere ad esempio tutti coloro che hanno un caso simile in famiglia, ovvero negare l’evidenza, trattenere la figlia in casa propria, beffandosi della quarantena, ignorando le regole della prevenzione, arrivando addirittura a mettere a repentaglio la vita della sua seconda moglie (Joely Richardson) che, per tutto il tempo dell’agonia, cura la moritura fingendosi indifferente alla sua pericolosità. Non è importante sapere che così si sono comportati anche i vicini con la loro bambina di quattro anni, sottratta alle autorità, segregata nella propria cameretta, fino a quando la temibile piaga non l’ha mutata in uno zombie costringendola ad attaccare i congiunti. La gente muore alla spicciolata, chi contaminato dal morbo, chi assassinato da quella stessa pietas, dall’empatia, dall’umanità sostanziale che non è riuscito a non proiettare sul proprio simile. Amico, genitore, parente che sia.

maggi1Il tema è forse un po’ quello di un brutto film francese del 2009 , Mutants, che rendeva la malattia del corpo, e il decadimento conseguente alle sue principali manifestazioni, l’espressione di una pornografia del dolore non diversa da quella di tanto, troppo melodramma. Contagious ne è la versione ragionata, fatta di cose non dette, promesse sussurrate a fior di labbra, bugie somministrate al posto di inutili antidolorifici. Sì, il silenzio, l’osservazione del nulla, la bellezza di una campagna che brucia, la profondità e la profanità di un cinema che rinuncia al sangue, all’esibizione della violenza e alle parole per esprimere i sentimenti attraverso gli sguardi. Sembra incredibile, ma c’è ancora qualcuno capace di regalare emozioni con la semplice composizione di un’immagine, un paesaggio, un volto. È il romanticismo del crepuscolo, quello che interessa a Hobson, quell’impalpabile senso di vacuità che aleggia sugli uomini al tramonto delle loro vite, e che rende impossibile il distacco dai propri figli. L’atmosfera ricorda allora l’ottimo The Dead Outside (2008) di Kerry Anne Mullaney, ma con meno dialoghi, meno argomentazioni, meno ritualità per scongiurare il male. In fin dei conti il cinema dell’orrore serve proprio a questo, a esorcizzare le aberrazioni del quotidiano, a dare fisicità all’evanescenza della malattia e delle sue ragioni imperscrutabili. Il contagio di Maggie e di chi le sta intorno è fondamentalmente una metafora dell’Alzheimer o di alcune gravi forme di squilibrio psichico, quelle che spingono la persona che ami a fare del male al prossimo, a diventare pericolosa per se stessa e per gli altri. In un film di fantascienza ci sembra naturale uccidere l’appestato per garantire la salvaguardia della specie, la sua continuità. Il cinema è riduttivo, sceglie lo spettacolo e la sua spettacolarizzazione. La realtà è tutta un’altra cosa. Hobson ce lo insegna. Hobson va tenuto d’occhio perché maledettamente sveglio.

Marco Marchetti

Contagious – Epidemia mortale

Titolo originale: Maggie. Regia: Henry Hobson. Sceneggiatura: John Scott 3. Fotografia: Lukas Ettlin. Montaggio: Jane Rizzo. Musica: David Wingo. Interpreti: Arnold Schwarznegger, Abigail Breslin, Joey Richardson, Bryce Romero. Origine: USA/Svizzera/UK,2015. Durata: 95′.

https://www.youtube.com/watch?v=80QnkfW-Inc

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