Dopo cinquant’anni torna in sala il film che inaugurò la trilogia del dollaro firmata da Sergio Leone. Il meritorio impegno della Cineteca di Bologna, con la collaborazione di Unidis Jolly Film, restituisce restaurato Per un pugno di dollari, che ovviamente precede gli altri due titoli, che seguiranno nel giro di un mese l’uscita nazionale. Sarà così possibile gustare tra giugno e luglio anche Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo, film che dal ’64 al ’67 rivoluzionarono il genere western.
Sergio Leone arrivava dal discreto successo della sua opera prima, Il colosso di Rodi. Predestinato, figlio d’arte (il padre Roberto Roberti era stato regista di film muti e la madre un’attrice), aveva cominciato da adolescente a frequentare i set, svolgendo attività di aiuto regia in età precoce e già intriso di cultura cinematografica e non solo.
Nonostante i produttori della Jolly Film fossero scettici sull’impatto che il film avrebbe suscitato sul pubblico, le idee del regista dovettero essere ben chiare, se è vero che, dopo l’incredibile successo al botteghino, nel giro di due anni produsse (in prima persona) il secondo e il terzo capitolo del suo affresco, non dei sequel, ma parte di un progetto preciso di rivisitazione del genere: rinunciare alle linee narrative già tracciate dal cinema statunitense, cancellare la figura eroica del cowboy valoroso per mettere al centro personaggi dall’etica certamente più ambigua, portare in primo piano la morte come dato di realtà, sottrarre retorica aggiungendo una marcata dose di ironia.
Lo spunto arrivava da La sfida del samurai di Kurosawa (1961), che a sua volta si era ispirato a un romanzo hard-boiled di Dashiell Hammett del ’29, Red Harvest (Piombo e sangue). Il film, pur nella semplicità di un intreccio lineare e ancora senza flash-back, conserva intatta la freschezza di un approccio al genere audace, spericolato, privo di inibizioni, che pur appoggiandosi su un immaginario preesistente e condizionato dalle pellicole hollywoodiane, tradisce riferimenti alti alla mitologia classica e alla commedia dell’arte.
Joe, avventuriero che arriva dal nulla, si mette a servizio di due padroni (più che una eco goldoniana), senza per altro svelare nulla di significativo sul suo passato. L’unico obiettivo sembra essere arricchirsi alle spese di due famiglie di farabutti, i Rojo e i Baxter, che hanno reso un inferno arido il paese di San Miguel. Due nuclei e lui in mezzo, a dettare i tempi della faida, almeno fino allo svelamento del doppio gioco, e la vendetta temporanea di Ramon Rojo (interpretato da Gian Maria Volontè).
Leone non teme l’ambiguità di Joe, anche se è consapevole che il pubblico è abituato a ben altri eroi. Del resto Clint Eastwood, che fino a quel momento aveva interpretato uno dei personaggi della serie Rawhide, ammiccava parecchio e riusciva a interpretare con disinvoltura il pistolero infallibile e misterioso, archetipo del signor nessuno che si materializza per scacciare i demoni che infestano il paese. Il Joe di Eastwood, pur senza aver nulla del Wayne pistolero fordiano, e nemmeno degli irrequieti personaggi di Anthony Mann interpretati da James Stewart, riesce ad avvincere, perché in fondo ciò che fa non è solo sopravvivere, ma distruggere una forma di potere spietato e prevaricante. Da servitore di due padroni a giustiziere, secondo formule inedite, ciniche, seguendo motivazioni oscure e solo alluse, come quando libera la donna schiavizzata da Ramon e dona libertà al figlio e al marito di lei (il ricordo un’infanzia difficile?). Poco importa. Semplicemente, per un pugno di dollari, Joe si insinua in un meccanismo, probabilmente conosciuto, che si regge su egoismi e avidità, per farlo saltare con l’unico linguaggi condiviso, quello delle pistole e dei fucili. Più delle pistole invero, dal momento che l’unico fucile è imbracciato da Ramon, convinto che quando un uomo con la pistola incontra un uomo con un fucile, è l’uomo con la pistola a soccombere! Purtroppo per lui, non sarà così..
Leone non risparmia piani ravvicinati sugli uomini freddati. La morte non è più una comparsa in campo lungo, come avveniva nei western americani, ma fine vera e drammatica. Mi interessa la realtà – ripeteva il regista. E un colpo di pistola in mezzo alla fronte ha degli effetti irreversibili, per cui a cadere non sono più sagome lontane, ma uomini ripresi in piano medio e americano.
E’ solo l’inizio dell’avventura artistica di Sergio Leone, ma la tecnica è già a servizio della poetica. Senza timidezze comincia a sperimentare frammentazioni spaziali e dilatazioni temporali, rendendo protagonisti dettagli, sguardi, e una dimensione sonora che aggiunge pathos, descrive psicologie, inventa atmosfere, grazie al sodalizio dell’amico di infanzia Ennio Morricone.
È l’inizio di una rivoluzione espressiva che servirà pienamente la poetica del regista quando, nei film successivi, i personaggi principali raddoppieranno e triplicheranno, le figure femminili conquisteranno la scena, lo sfondo si tingerà di Storia americana.
Alessandro Leone