Quasi in punta di piedi, ma neanche troppo in realtà, mi discosto dall’esaltazione generale legata all’ultimo lungometraggio di Gaspar Noé, uscito nelle sale italiane, pochissime per la precisione, lo scorso 13 giugno. Ammetto che la playlist in stile 90s e il demone della danza coinvolgono a tal punto da farti credere di essere sotto effetto di acidi, esattamente come il collettivo di ballerini protagonista del film, quindi non biasimo la cascata di “capolavoro”, “disturbante” e “pugno allo stomaco” che si è susseguita sia dal pubblico neofita al genere, che dalla critica più affermata.
L’opera inizia con una fine: una donna disperata e dilaniata dal dolore si trascina sanguinante su una distesa innevata e, dopo pochi attimi, compaiono i titoli di coda a sigillare l’inizio della fine, come se il regista volesse obbligarci a giocare con la dimensione spazio-temporale, a prendere il concetto stesso di climax, distruggerlo e ricomporlo a suo piacimento e, frame dopo frame, dimenticarcene totalmente. D’altronde ci si dimentica anche di chiedersi “chi è stato?”, perché si, qualcuno tra i protagonisti ha reso la sangria un mix letale di alcool e acidi, probabilmente per sballarsi di più, anche se i motivi sono poco chiari e francamente non interessano a nessuno, tant’è che non vengono esplicitati e, come nei classici gialli ai quali lo stesso regista dichiara di ispirarsi, il colpevole emerge durante l’ultima scena.
Il rave inconsapevole innesca dinamiche facilmente prevedibili fin dalle poche e banali battute scambiate tra i protagonisti, quasi fosse un flusso di coscienza, o bensì incoscienza; come in qualsiasi gruppo che si rispecchi vi sono dissapori celati, relazioni nascoste, tradimenti più o meno espliciti, dinamiche torbide di amicizia e desideri sessuali resi eccitanti dall’impossibilità di realizzarli, tant’è che dalle singole confessioni viene spontaneo aspettarsi una conseguente carneficina sessuale, un’orgia estremamente violenta e sanguinolenta che giustifichi il divieto alla visione ai minori di diciotto anni. Invece no, sorso di sangria dopo sorso, si attende il punto più alto del climax, un apice che non arriverà, o per lo meno non come uno spettatore già dedito al cinema oscuro si aspetta.
Ciò che ho trovato estremamente interessante è piuttosto il passaggio da una dinamica collettiva, tipica della danza, a una dinamica individuale di scontro con i propri demoni interiori in totale solitudine, disperazione e autolesionismo. Il ballo, di sua natura aggregativo, e l’intensa coreografia messa in scena sulle note di Supernature di Cerrone lo dimostrano; i ballerini sono tanti, ma se ne percepisce fortemente l’unità, nonostante, a detta di Gaspar Noé, i movimenti non siano stati studiati minuziosamente prima. Tante scene sono frutto di un confronto diretto con i ballerini stessi, ai limiti dell’improvvisazione, quest’ultima resa possibile grazie alla singolarità della location e alla scelta di girare per lo più in piano sequenza, i virtuosismi della macchina fanno impazzire Noé, come se anche la macchina fosse sotto effetto di lsd.
Unico volto conosciuto è quello di Sofia Boutella, che a tratti sembra essere il personaggio clou sul quale si concentrano la maggior parte delle inquadrature, anche se la percezione sempre più insistente è che l’unico protagonista del film sia lo stesso Gaspar Noé.
Come proposto a caratteri cubitali sullo schermo, probabilmente per dare un senso ed intellettualizzare uno sbrocco tra strafatti, “vivere è un’impossibilità collettiva”, ma è anche vero che è impossibile vivere in collettività, perché ad un certo punto che sia la sangria, un acido o qualsiasi altro agente esterno o interno, l’io prevale sul noi, innescando la brutalità, il cinismo ed egoismo tipico di ogni essere umano.
Il noi, l’io, e l’io di Noé, ecco dove emerge il climax.
Tatiana Tascione
Climax
Sceneggiatura e regia: Gaspar Noé. Fotografia: Benoît Debie. Montaggio: Denis Bedlow. Interpreti: Sofia Boutella, Romain Guillermic, Souheila Yacoub, Kiddy Smile, Claude Gajan Maude. Origine: Francia, 2018. Durata: 90′.