Alla fine siamo arrivati a quota 50. Tanti sono i film di Woody Allen, e non è un traguardo da poco. Lo dimostra il fatto che non sono poi così tanti i registi ad essere riusciti a mettersi in gioco per ben 50 volte. Perché i grandi autori sanno bene che non si tratta mai semplicemente di “fare un film”. Un artista è consapevole del fatto che una gran parte della propria personalità, della propria mente e forse, perché no, del proprio cuore sarà resa pubblica. Lo spettatore sarà sempre attento, spesso impietoso, nel giudicare il messaggio in un’opera, così come la forza, la nitidezza e l’efficacia della personale visione del mondo. Nella pentola d’oro, alla fine dell’arcobaleno, ci sono fama e successo.
Per Alan Stewart Konisberg quella particolare strada è stata tutto sommato piuttosto agevole. D’altronde si sa che gli Stati Uniti sono il paese della meritocrazia e delle grandi opportunità. E così, un giovane ebreo con la penna facile e la battuta arguta, che a soli 16 anni invia sketch ai comici della televisione, non resta a lungo inosservato. Sotto lo pseudonimo di Woody Allen, il talentuoso giovanotto approda presto ad Hollywood. E forse nel 1969, anno in cui realizza Prendi i soldi e scappa, il cinema americano aveva davvero bisogno di una ventata di ironia e freschezza. Oggi ritenuto un classico della comicità, già all’epoca si intuì che il ragazzo avrebbe portato qualcosa di ben più importante di uno spiccato ingegno narrativo o di un personaggio ipercritico, ipocondriaco e nevrotico. C’era la straordinaria abilità di omogeneizzare la cultura europea tra le grasse risate di un film apparentemente disimpegnato. Del resto, provate voi a far ridere con Kant e Dostoevskij… Ebbene, Woody Allen ci riuscì con Amore e Guerra (1973) e fu un successo non da poco, visto quanto la cultura americana sa essere diffidente nei confronti della filosofia e della letteratura ottocentesca.
Allen da subito rende il nichilismo e l’autocoscienza concetti alla portata di ogni americano, e lo fa innumerevoli volte ed in vesti diverse, dalla commedia al dramma, suo vero amore. Nel 1978 Allen sorprende di nuovo, raccogliendo i consensi della critica, soprattutto europea, con quello che sarà solo il primo di tanti film drammatici, ovvero Interiors. Cercando di racchiudere i drammi di alcune donne borghesi in una gabbia di vetro e tempesta, Woody Allen sembra voler guardare ad Ingmar Bergman, riferimento assoluto nel suo cinema.
Ma fare film drammatici non è uno scherzo e non sempre la formula riesce. Il lavoro del regista si fa frenetico, ansioso, stretto tra la volontà di realizzare un grande film e l’esigenza di girare senza pause (un film all’anno), godendo di totale libertà, tipica di quegli autori che, avendo ormai raggiunto la notorietà, sentono di non aver più nessuno che chieda loro di dimostrare qualcosa. Gli anni Settanta sono infatti quelli in cui, con una cascata di premi Oscar, i suoi film Io e Annie – che riceve 4 statuette – e Manhattan – che non ne prende nessuna, ma che ha un impatto culturale fortissimo perché riesce a fotografare letteralmente l’amore per la città di New York – Allen chiarisce quale tipo di cinema sa fare. Difficile e rischioso, cambiare rotta, come il regista evidenzia nel suo ironico film del 2002 Hollywood Ending. L’industria cinematografica statunitense all’interno della quale Allen è così noiosamente ben posizionato quasi non si accorge che Settembre, caso quasi unico nella storia del cinema, viene girato due volte. A nessun altro autore sarebbe stato concesso di girare daccapo un film, al cospetto di una versione insoddisfacente.
Genio e follia, che però non riescono a raggiungere l’obbiettivo prefissato: il capolavoro, nonostante Manhattan sia già riconosciuto tale, secondo Allen ancora deve arrivare. Il confronto con l’”idolo” Bergman ritorna costantemente nelle sue dichiarazioni. Stranamente sulla via del dramma l’autore newyorkese inciampa, si perde in una catena di riferimenti precisi, ma disordinatamente collocati. È il caso di Crimini e Misfatti (1989), dove una storia di adulterio ed omicidio tenta di farsi emblema dell’ineluttabilità del destino, sotto il potente respiro del fato. Un film inesorabilmente destinato a finire quasi sullo sfondo della filmografia alleniana. Ma a guardarlo attentamente, profondamente, e con il senno di poi, questa piccola opera contiene il seme di alcuni concetti importantissimi, che resteranno sotterranei per quasi sedici anni. Nel 2005, dopo un decennio di film perlopiù poco interessanti, segnati dalla disastrosa rottura con Mia Farrow, gli antichi semi sbocciano in tutta la loro bellezza. Riecco le morbose ossessioni che oscuravano le vite dei personaggi di Crimini e Misfatti, questa volta con una maturità inattesa e sconvolgente. Match Point non è solo il dramma di un uomo che rischia di perdere la posizione sociale raggiunta col matrimonio a causa di un’irrefrenabile passione adulterina per una donna senza arte né parte. È la tragedia di un uomo che nel delitto trova la conferma delle sue paure più intense: il Dio che dovrebbe punirlo, fermarlo non esiste. La giustizia tace sotto la sinfonia di un’opera tragica e l’uomo non può che restare assordato da quel silenzio, dove non trovano spazio nemmeno i suoi spettri. Londra è la cornice perfetta per un quadro che oscilla come un pendolo tra Shakespeare e Dostoevskij e del quale Woody Allen è superbo pittore.
Allen dimostra una volta per tutte di essere un maestro nell’ibridare i generi, dopo aver smitizzato il documentario con l’immenso mockumentario Zelig, in piena fase post-sessantottina essersi burlato degli assurdi costumi sessuali degli americani con Tutto Quello che avreste voluto sapere sul sesso.., e ancora, dopo aver frantumato per primo l’indistruttibile quarta parete con Io e Annie, il regista sembra aver capito che il cinema è un po’ meglio della vita reale, che può essere il luogo dove è lecito rompere la sottile linea di confine tra realtà e immaginario, dove si può idealizzare l’amore e concretizzare i sogni, o semplicemente confondere i desideri con la verità della vita. Allora il personaggio di una pellicola cinematografica può rubare il cuore di un’ingenua sognatrice ne La Rosa Purpurea del Cairo (1985), mentre la vita coniugale diventa un’assurda sciarada senza capo né coda, come avviene in Mariti e Mogli (1992). Perché in fondo ad un artista resta sempre il rifugio dell’immaginazione, anche se significa regalare la propria vita al caos al punto che il protagonista di Pallottole su Broadway (1994) scopre con sollievo di non essere uno scrittore. Beato lui! A Woody Allen, così come al Gil di Midnight in Paris (2011) resta solo la consapevolezza che il “presente è un po’ insoddisfacente perché la vita è un po’ insoddisfacente”. Pazienza, perché a noi resta sempre il cinema in ogni caso, soprattutto quel cinema che Allen ha voluto omaggiare nel corso della sua carriera con risultati spesso poco felici (in questo senso consideriamo su tutti il caso di Stardust Memories) o strabilianti, come nel caso del recente Blue Jasmine. Questo è infatti un remake di quello che Woody Allen considera da sempre uno dei suoi film preferiti, cioè Un Tram chiamato Desiderio. Lo riprende, lo rielabora in maniera sentita ed appassionata. Trova un modo estremamente raffinato per riparlare del dramma esistenziale della borghesia americana, tema da sempre carissimo al regista. Nulla è migliorato da quando l’aveva affrontato nel 1972 con Manhattan. Anzi, è caduto il velo demistificatorio dell’ironia, l’effetto placebo dato da un finale di rassicurante speranza. Alla fine la classe borghese è definitivamente impazzita sotto il segno di una schizofrenia galoppante ed irrefrenabile, che riesce solo e soltanto a distruggere ogni qualsivoglia forma di felicità. E la radice di questo desolante male è sempre autoctona. Con l’aiuto di Elia Kazan, Allen si libera di un peso opprimente. Già da tempo sembra voler infatti esprimere la consapevolezza che quel dramma che da giovane tentava di descrivere lo ha ormai definitivamente coinvolto e fagocitato. Forse l’opera che però veicola meglio questo messaggio è paradossalmente il disastroso To Rome With Love del 2012. Come si può ben osservare infatti l’episodio dell’architetto contiene il doppio dello stesso Woody Allen nel personaggio di Alec Baldwin, venduto alla progettazione di centri commerciali così come lui ha accettato di fare un certo tipo di cinema da cassetta. Insieme e con la stessa voce tentano di dissuadere il personaggio di Jesse Eisenberg dal voler commettere errori dettati dall’inesperienza. È come se, in un certo senso, il vecchio Woody volesse parlare ad un giovane se stesso, come se volesse fargli la morale sotto il dettame del rimpianto. Dentro la situazione ricalcata da Provaci ancora Sam, tra citazioni tratte dai suoi stessi film e dalla sua vita privata, attiva un processo intensamente catartico.
Con Magic in the Moonlight si taglia il traguardo del cinquantesimo film con un lavoro che si preannuncia pacificato e leggero. Allora perché non abbattere la noia che accompagna l’uscita dell’annuale pellicola alleniana andando al cinema e godendoselo a mente libera da sfiancanti pretese interpretative?
Giulia Colella