Dal 7 al 10 novembre 2012 la città di Varese ha ospitato la prima edizione del festival Documentamy, nato dall’iniziativa dell’associazione Filmstudio 90, con il contributo di Fondazione Cariplo. Il festival si è avvalso dello sguardo, sensibile e attento, di giovani autori – massimo 35 anni – che hanno presentato al pubblico i loro documentari corti. Massimo D’Anolfi e Martina Parenti sono stati chiamati a comporre la giuria del festival.
Com’è stata questa esperienza?
Abbiamo visionato una dozzina di lavori ed è stato molto interessante vedere una varietà di generi (intimistico, artistico, di inchiesta). E’ stato premiato il documentario intitolato E’ troppo vicino per mettere a fuoco, una storia personale, di una ragazza che, attraverso alcune fotografie, riflette sulle propria vita, intrecciata a due guerre, quella nei Balcani e quella in Iraq. E’ anche vero, però, che negli ultimi anni c’è stato un incremento nella produzione dei documentari che spesso non coincide con la qualità.
Durante la rassegna è stato presentato anche il vostro lavoro, Il castello, in cui si racconta un anno trascorso all’interno dell’aeroporto di Malpensa…
E’ stato girato, appunto, nell’arco di un anno e racconta la vita di un aeroporto attraverso quattro stagioni. Abbiamo voluto riprendere uno spazio nel tempo e far emergere storie e situazioni per raccontarne l’umanità. L’elemento di frattura, ad esempio, o di rottura del “castello” è rappresentato da una signora che si appropria dello spazio e lo fa diventare “casa”; ma lo è anche, in un certo senso, il ragazzo nigeriano che vuole tornare nel proprio Paese. Se scegli di raccontare il Presente e una realtà complessa e questo racconto si allarga, allora lo spettatore attento può scoprire, nel film, vari significati. In particolare, lavorando a questo documentario, abbiamo capito che l’aeroporto è un laboratorio sul tema della sicurezza perché si mettono in atto delle pratiche di controllo molto capillari: sta poi allo spettatore trarre le conclusioni o fare le riflessioni su questo argomento.
Cosa significa per voi fare cinema documentario?
I documentari sono la forma di cinema più vitale. Il documentario partecipa della realtà. Non racconta la verità, ma è sicuramente una reinterpretazione della realtà, uno sguardo sulla realtà. Inoltre, dal punto di vista creativo, offre una serie di spunti, di suggestioni, di ricerche e di imprevisti che il cinema di finzione offre meno, soprattutto nella pratica del fare. Fare un documentario è un lavoro da artigiano, in cui si controllano tutte le fasi di realizzazione e, alla fine, il lavoro lo senti tuo.
C’è un filo conduttore che lega Il castello alle vostre opere precedenti, I promessi sposi e Grandi Speranze?
Prima di tutto, rubiamo i titoli alla letteratura. Con “il senno di poi” ci siamo accorti di aver fatto film che hanno a che fare con le istituzioni e con il Potere. I promessi sposi racconta dei corsi prematrimoniali in Chiesa e presso i Comuni italiani; Grandi speranze della futura classe dirigente, di giovani sotto i quarant’anni che, forse, in futuro avranno il potere. E Il castello, in fondo, riprende queste tematiche. Ma non era nelle nostre intenzioni iniziali. Lavorando a questi documentari abbiamo finito con il parlare di persone comuni, normali, che si ritrovano invischiate in meccanismi complessi.
Siete una coppia e lavorate spesso insieme. Come vi dividete i ruoli durante la realizzazione dei film?
Scriviamo insieme il soggetto del film che si sviluppa mentre lo realizziamo. Parliamo molto, ci confrontiamo, ma abbiamo deciso di non scrivere le sceneggiature perché, anche nella fase di montaggio ad esempio, scopriamo delle cose. E anche al montaggio lavoriamo insieme; durante le riprese, invece, io filmo e Martina prende il suono.
A cosa state lavorando adesso?
E’ un segreto, ma il nuovo documentario uscirà a gennaio.
a cura di Alessandra Montesanto, in collaborazione con MAE Milano Arte Expo