Ho visto una donna avvicinarsi a un uomo e alitargli in viso. La bocca di lei a cinque centimetri dal naso di lui. Nessuno dei due aveva la mascherina. Nessuno dei due si era posto minimamente il problema della distanza. A nessuno dei due avrà detto niente la parola Covid. Ho isolato il fotogramma in cui questi due sconosciuti quasi si sfiorano secondo le leggi del desiderio e ho avuto pietà per noi, seduti in una sala cinematografica quasi vuota, a guardare un film d’altri tempi, girato un’epoca fa, tra il 2018 e il 2019. Mi sono affacciato in ogni inquadratura con la curiosità di sbirciare ogni angolo dietro un divano a Tunisi per scorgere qualcosa che assomigliasse a una mascherina chirurgica dimenticata per sbaglio o scivolata all’aperto su un marciapiede o portata via dal vento come una medusa aerea. Niente. Nessun segno che rendesse contemporanea questa storia di psicanalisi post Rivoluzione dei Gelsomini. Ho provato la sensazione dolce che mia madre mi diceva di aver provato davanti a Vacanze romane, la seduzione tra la principessa Anna e Joe, il lento declinare del capo di una giovane donna davanti al sogno al nitrato d’argento, il gusto effimero di una parentesi di zucchero filato nelle asprezze della vita fuori dallo schermo.
C’è tutta l’impressione dei film da un altro universo, dei fantasy più spinti, quando al cinema il realismo smaccato perde la sfida con il presente e si pone a distanze imprevedibili, come se qualcosa non riuscisse più a identificarci in quella zona ai confini della realtà che è un mondo senza maschere e plexiglass tra i tavoli e gente che vorrebbe abbracciarsi e a malapena riesce a fingere l’imbarazzo per una mano nella tasca dei pantaloni.
E a conti fatti siamo forse sprofondati dall’altra parte dello schermo come Buster in Sherlock Junior o Cecilia ne La rosa purpurea del Cairo, e la vita di prima ci guarda come noi guardavamo il cinema prima del Covid-19, tutta lì la vita, a riempire la sala, a occupare tutte le poltroncine, mentre noi nuotiamo per uscire dai lockdown e ci accorgiamo di vivere in un film horror ma senza pop-corn, senza la consolazione del ritorno a casa e dell’emozione calda. Un gioco tra narrazioni che ha tutta l’aria dei doppi generati da specchi deformanti con la variante di essere nella deformazione, tanto che in quel cinema d’altri tempi è impossibile ogni identificazione.
Adesso avrei tanto bisogno di una maschera che con la torcia mi indichi il posto libero, coccolandomi con la frase di rito: si accomodi e si goda lo spettacolo.
Alessandro Leone