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Cibo nei film, a Cannes è meglio abbondare

The Pot-au-feu e Club Zero

La cucina ha assunto un ruolo di primo piano nel cinema contemporaneo, per esempio con i recenti Sì, chef – La brigade di Louis-Julien Petit, Boiling Point – Il disastro è servito di Philip Barantini e The Menu di Mark Mylod, usciti in sala negli ultimi mesi.
Una conferma di questa tendenza è venuta dal 76° Festival di Cannes dove il cibo è stato protagonista, ai poli opposti, di due film in concorso: la dieta estrema degli adolescenti di Club Zero dell’austriaca Jessica Hausner e le ricche pietanze di The Pot-au-feu – La passion de Dodin Bouffant di Tran Anh Hung. Il regista francese d’origine vietnamita si era affermato a inizio carriera con Il profumo della papaya verde (1993) e Cyclo (Leone d’oro a Venezia nel 1995), per poi finire in un cono d’ombra dal quale era riapparso per un istante con il discreto e niente più Norvegian Wood del 2010. Il regista ha ritrovato ispirazione in un libro dello scrittore svizzero Marcel Rouff per una pellicola ambientata a fine ‘800 nella quale si cucina e si mangia per tutto il tempo. Più che de La grande abbuffata, si è dalle parti di Chocolat, avendo in comune la presenza di Juliette Binoche, che qui ritrova l’ex compagno di vita Benoit Magimel.
Eugénie e Dodin sono una coppia di cuochi che vive insieme da molti anni in una grande villa di campagna: ciascuno possiede le sue stanze e non sono sposati, sebbene l’uomo vorrebbe la fede al dito. Le loro giornate trascorrono tra la cura dell’orto insieme ai loro dipendenti e le lunghe preparazioni di piatti prelibati per gli amici gourmet. Dopo essere stato invitato a pranzo dal principe di Eurasia, Bouffant deve ricambiare e pensa a preparare il “pot-au-feu” del titolo inglese, un piatto semplice che intende rielaborare. Eugénie ha però svenimenti improvvisi dai quali si riprende in fretta, prima ancora che il dottor Rabaz, sodale di degustazioni, possa visitarla. La prima parte del film, con una scena di cucina che dura quasi mezz’ora, appare molto estetizzante e quasi calligrafica. La pellicola resta sull’esteriorità in attesa di addentrarsi nel cuore della relazione e dei temi che interessano Tran: la condivisione della passione della cucina come legame d’amore, il dedicarsi agli altri, l’imparare a gustare attraverso l’esperienza negli insegnamenti alla giovane vicina Pauline (un discorso che si può valere anche per l’arte e il cinema) e la cura nel fare le cose. Si arriva a parlare anche di felicità citando Sant’Agostino. Un film che presenta una varietà quasi stucchevole di verdure, carni, pesce, dolci e, naturalmente, vini pregiati. Meritato il premio per la regia, con una messa in scena classica, elegante e virtuosistica, con una macchina da presa che pare sospesa e un largo utilizzo di luci di taglio negli interni.
È un bel lavoro che potrà piacere al pubblico, che sa anche toccare le corde delle emozioni, con due interpreti affiatati e in gran forma: Magimel è ora nelle sale con Pacifiction di Albert Serra, in gara a Cannes un anno fa, e ricorda quell’interpretazione per il magnetismo e per come regge l’attesa che qualcosa succeda.

All’opposto c’è l’atmosfera quasi raggelata di Club Zero, che invece è rimasto, e giustamente, senza premi. Il film è ambientato nel Talent College, una scuola superiore privata solo per ricchi, dove un gruppo di ragazzi si è iscritto al corso facoltativo di “Alimentazione coscienziosa” con una nuova insegnante, la signorina Novak (Mia Wasikowska). Questa è stata scelta dai genitori in base al suo sito internet, nel quale promuove il suo tè dietetico. Novak si presenta come una guru suadente ma un po’ di plastica, è gentile e insieme inquietante, sembra indossare una divisa (compresa di sorriso piatto) simile a quella degli studenti.
Nel primo incontro, come in una terapia di gruppo, gli studenti disposti in cerchio espongono le ragioni della loro scelta: c’è chi lo fa per la salvaguardia dell’ambiente, chi per la propria salute e c’è Ben, che vuole acquisire i crediti necessari per la borsa di studio. Il ragazzo ama mangiare, è figlio di madre single che non può permettersi il college senza un sostegno economico. Per il suo non aderire alle regole viene messo ai margini e considerato dal gruppo come quello da redimere e integrare. Intorno a lui spiccano l’ambientalista convinta Lisa, già anoressica, la promettente ginnasta Ragna e il talentuoso ballerino Fred.
La Novak li spinge a mangiare sempre di meno decantando gli effetti positivi di un’alimentazione minimale (“non c’è bisogno di basi scientifiche se una cosa funziona” – afferma) fino a parlargli del Club Zero, di cui ella stessa fa parte, composto da chi si astiene completamente dai cibi.
Come si può facilmente intuire, finirà in tragedia, anche se la regista, prova il colpo di scena nel suo continuo voler scandalizzare la borghesia. Hausner presenta famiglie anaffettive e tristi, chiuse nel loro mondo privilegiato, mentre gli adolescenti sono smarriti o convinti di facili certezze. Compie una satira dei ricchi contrapponendo situazioni e pratiche altrettanto da ricchi. Club Zero è un film sulla manipolazione e sul conformismo, ma anche seguire la Novak è conformismo da parte degli studenti: le regole sono come quelle di una setta che esclude, infatti Fred è escluso perché non si adegua. Il rifiuto del cibo rappresenta, con una metafora facile, il rifiuto della società e della famiglia (da cui però non riescono a staccarsi), ma l’esito della rinuncia è prevedibile.
Hausner fa scelte stilistiche rigorose ma un po’ inerti, pure scontate, impiega inquadrature fisse di locali, mense, aule, con musica che irrompe spesso. Tutti modi espressivi soliti dei suoi lavori: la regista non esce dai suoi schemi. Ne risulta una pellicola di accumula, meccanico, implacabile (e in fondo un po’ ripetitiva) che resta in superficie e non va davvero dentro le questioni. I singoli ragazzi sono schematici, ciascuno ha una parabola già definita, non hanno sfumature o complessità, non riservano sorprese. Sembrano usciti da uno dei Lanthimos più banali o da un film di quel filone.
Hausner, una fedelissima di Cannes (o una prediletta, a seconda dei punti di vista) fin da Lovely Rita del 2001, torna dalle parti di Lourdes (2009) che resta il suo più interessante e riuscito, non solo per le scelte visive, ma perché l’adesione alle regole per il cibo ha un aspetto individuale e uno collettivo. E anche qui, a un certo punto, entra in causa la fede. E Club Zero può essere più irritante che brutto, ma in definitiva lascia poco.

Nicola Falcinella

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