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Che strano chiamarsi Federico!

Federico Fellini ed Ettore Scola si conosco nel 1946. Si incontrano alla redazione del Marc’Aurelio, un giornale di satira politica dove il giovanissimo Scola ha appena cominciato a lavorare: disegnerà vignette e scriverà battute e storie divertenti.
Anche Fellini qualche anno prima ha lavorato per il Marc’Aurelio. Anche lui era giovanissimo e anche lui scriveva vignette, battute e storie divertenti. Assieme a loro, in redazione, ci sono Steno e Age e Scarpelli. Ci sono Attalo e Ruggero Maccari. Ci sono insomma le migliori penne comiche (e non solo) dell’Italia di quegli anni. E’ un momento forse irrepitibile. Dove tutti lavorano con tutti. Dove ci si scambia idee e battute, e dove ogni scusa è buona per andar a tirare mattino nei bar e nelle osterie. Un ambiente per vitelloni di talento. Ed è in quest’ambiente che Fellini e Scola diventano amici e amici rimangono, per tutta la vita.

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Si dirà che Che strano chiamarsi Federico! è documentario atipico. E’ così. E lo è perché, prima ancora di essere un documentario, è un atto d’amore che Scola dedica al proprio amico; adesso che sono passati quasi settant’anni da quell’incontro, e venti da quando Federico Fellini non c’è più.
Con un affetto quasi palpabile, Scola ripercorre gli inizi della carriera di Fellini fino alla maturità, e ancora più in là: fino ai funerali, fino alla morte.
E’ un viaggio fatto di andature lente e accelerazioni improvvise. Di salti temporali e luoghi tralasciati. Messo insieme mischiando filmati d’archivio (pochi) a momenti ricostruiti in studio con attori e scenografie e musiche. Con quello che serve per fare il Cinema.

Una parzialità dello sguardo che, se inevitabile, è anche motivata, e discende da quello stesso affetto. Le parti di vita di Fellini che Scola ci racconta sono quelle che più direttamente hanno a che fare con la sua. Così si spiega, per esempio, perché ci siano tante scene dedicate a Marcello Mastroianni e un attore apposta per interpretarlo, e invece solo qualche inquadratura, veloce, di Giulietta Masina. Perché Mastroianni è stato attore ed amico di entrambi, mentre Giulietta è stata solo di Federico. E poi lunghe passeggiate e giri in automobile per le notti di Roma. Peregrinazioni con cui Fellini riempiva la propria insonnia, e che assomigliavano al suo Cinema: “Fare un film è come fare un viaggio. Ma del viaggio mi interessa la partenza, non l’arrivo. Il mio sogno è fare un viaggio senza sapere dove andare, magari senza arrivare in nessun posto”.
Se la scelta degli episodi raccontati, il cosa mostrare, sono l’omaggio all’amico, il tributo al cineasta sta tutto nel come.
Girando interamente nello studio 5 di Cinecittà, che è stata la casa di Federico Fellini, Scola ricostruisce quanto ha bisogno senza curarsi della verosimiglianza. Anzi, facendo attenzione a che si capisca che è tutto finto. Che non sono palazzi, ma scenografie. Non orizzonti reali, ma teli dipinti.
Che strano chiamarsi Federico! si apre con l’inquadratura di una spiaggia con un mare tranquillo, proiettato sullo sfondo. A vederla, quella spiaggia-palcoscenico, così bella e così improbabile, viene in mente di quando, durante le riprese di Amarcord, poco prima di girare la sequenza del passaggio del transatlantico Rex -una sequenza meravigliosa tutta girata in interno- tutti si guardano intorno e vedono il lavoro fatto da Danilo Donati e dagli aiuto scenografi: quel mare fatto coi sacchi, con le barche e il transatlantico, con quella luce che dai fari piove su tutto, dentro la nebbia, e allora tutti un po’ preoccupati si chiedono: “Ma non avremo esagerato? Non sembrerà vero?”.

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Per Fellini la verità non ha avuto mai molto a che fare con la verosimiglianza. E anche la memoria era qualcosa su cui, rispetto a come viene perlopiù intesa, si sentiva un po’ in disaccordo. E quando glielo chiedevano, rispondeva che per lui la memoria -quella dove ci si ricorda esattamente tutto com’era, con le cose al posto giusto e le parole giuste- non esisteva. E se esisteva non gli interessava. E diceva che per lui la memoria aveva sempre dentro qualcosa in più; qualcosa che ha a che fare con la persona che sta ricordando; con le sue esperienze e i suoi sentimenti e i suoi sogni.
Perciò quando si racconta qualcosa non è poi importante che le cose siano proprio com’erano allora. Non è poi nemmeno importante che siano vere, in un certo senso.
E allora va bene che la piazza di Amarcord non c’entri molto con nessuna piazza di Rimini; che il Grand Hotel sia diverso. E va bene che Alberto Sordi e suoi amici vitelloni guardino un mare dove il sole può tramontare. Anche se in Emilia Romagna, a Rimini, il sole dal mare sorge, non tramonta: “Il cinema verità? Sono piuttosto per il cinema-falsità. La menzogna è sempre più interessante della verità. […] La fiction può andare nel senso di una verità più acuta della realtà quotidiana e apparente. Non è necessario che le cose che si mostrano siano autentiche. In generale è meglio che non lo siano”.
Facendo muovere il suo Federico dentro quella Roma fatta di palazzi dipinti, su quella spiaggia, Scola lo fa muovere in un mondo che è il mondo immaginato da Fellini. Ne adotta lo sguardo. Uno sguardo che parte dall’individuo, da dentro. Dove è la storia a piegare a sé la realtà e non il contrario. In questo senso, l’espediente di utilizzare la vera voce di Fellini, prelevandola ora da questa ora da quell’intervista, per costruire dei dialoghi immaginari, rappresenta uno dei momenti più felici e riusciti del film. La capacità di partire dall’individuo per arrivare all’universale, passando attraverso i suoi sentimenti e il suo mondo particolare, è stata una delle qualità più alte del Cinema di Federico Fellini. Un gesto difficilissimo e magico. Una di quelle cose che venivano a bene a gente come Charlie Chaplin, per capirci.
Un gesto che, a vent’anni dalla morte, Ettore Scola ci ha aiutato a ricordare.

Matteo Angaroni

Che strano chiamarsi Federico!

Regia: Ettore Scola. Sceneggiatura: Ettore Scola, Silvia Scola, Paola Scola. Fotografia: Luciano Tivoli. Interpreti: Sergio Rubini, Tommaso Lazotti, Giacomo Lazotti. Origine: Italia, 2013. Durata: 93′.

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