La New York del titolo è quella degli anni ’20, che ritratta dal colore ocra fa da sfondo alla storia di Ewa – l’immigrant del titolo originale. Interpretata da Marion Cotillard, Ewa è una ragazza polacca che sbarca con la sorella nella baia di New York, dove attende loro una lunga coda per ottenere il permesso di varcare le soglie di Manhattan. Già in attesa ad Ellis Island, però, il sogno americano di Ewa si inizia a sgretolatolare. Dalle speranzose aspettative precipita nella realtà che diventa un susseguirsi di sfortunati eventi: Ewa è costretta a lasciare in ospedale la sorella Magda gravemente malata e cade nelle mani di Bruno (Joaquin Phoenix) che le promette di aiutarla, ma poi la costringerà a prostituirsi.
James Gray ha scelto questa storia per il suo primo film in costume ispirato da alcune foto di famiglia, il suo bisnonno ebreo russo arrivò nel 1923 ad Ellis Island luogo simbolo dell’immigrazione di quegli anni che ha custodito le angoscie, le preoccupazioni e il senso di estraneità che hanno provato i bisnonni del regista e di molti altri.
Negli occhi di Ewa, su cui insistono le inquadrature di Gray, infatti leggiamo sopratutto smarrimento e isolamento, il legame con la sua famiglia è stato brutalmente tagliato a causa della quarentena a cui è costretta la sorella e l’aiuto negato dagli zii. Così le speranze di Ewa in un attimo si riducono all’unico obiettivo di raccogliere i soldi per liberare la sorella. Per raggiungerlo fa qualsiasi cosa, anche prostituirsi, nonostante si senta umiliata. Tra Ewa e Bruno però si instaura un rapporto di dipendenza da una parte e ossessivo dall’altra: Ewa non può allontanarsi da lui perché alla fine rappresenta l’unica speranza per un futuro migliore, mentre Bruno, invaghito di Ewa, è tormentato dalla gelosia.
Di materiale drammturgico ce ne sarebbe, ma il film non riesce a dare spessore al complicato groviglio emotivo dei personaggi. E se le emozioni non ci colpiscono, non riesce a farlo nemmeno la storia che diventa ripetitiva e noiosa, nonostante la solida regia.
Di fatto il film non inizia mai. Peccato, perchè verso la fine si rivela la complessità di quel rapporto tra i due protagonisti e del personaggio che sarebbe potuto essere il fulcro del film: Bruno. Dipinto per tutto il racconto come il classico cattivo e iroso che si agita senza senso contro tutto e tutti, nasconde un’umanità che ci permette di perdonarlo sempre. E nell’ultima scena la sua profondità si rivela quando dice di stesso di essere un “nulla”, quando in realtà per Ewa è stato “tutto”. Peccato aver dovuto attendere l’ultima scena. Davvero troppo tardi.
Camilla Mirone
Il confine
C’era una volta a New York è una storia di confine. E’ la sensazione sul finale di una storia apparentemente insapore.
L’immersione è nel 1921 dai toni seppia. L’eco della disperazione della guerra mondiale che, concludendosi, rade al suolo le speranze di una ripresa economica. La grande migrazione verso l’America, dove tutto da lontano sembra ancora intatto.
Marion Cotillard è Ewa Cybulski, una giovane polacca che prova a credere nelle luccicanti promesse d’oltreoceano. La storia di Ewa è Il Confine. Non sappiamo quasi nulla della sua identità. Il suo paese d’origine è esso stesso una frontiera europea. La conosciamo poi, nelle vesti di protagonista, nel momento prossimo ad Ellis Island. Nessun oggetto la rappresenta. Eccola nell’anonima coda per la registrazione. Subito avviene la separazione dalla sorella Magda, che viene sconfinata nel limbo della quarantena per sospetta tubercolosi. Ewa rimarrà ancorata a Magda per tutta la durata del racconto. Il che risulta strano per uno spettatore che non sa nulla del legame fra le sorelle. Si potrebbe idealmente tracciare anche il confine fisico oltre il quale Ewa non ha il coraggio di spostarsi – una New York ancora a dimensione d’uomo. Forse per il legame affettivo appena citato, forse perché intimamente non vorrebbe intraprendere una nuova vita.
C’è chi riesce a concretizzare l’American Dream, come gli zii delle due sorelle. Ma alle nuove arrivate comunicano un indirizzo di casa inesistente. La gloria di quel sogno – a questo punto dedicata a pochi – schiaccia l’orgoglio degli immigranti, costretti a subire fredde condizioni in favore di una nuova identità.
La vicenda riserva delle speranze, infatti Ewa come protagonista procede a piccoli passi. La giovane, nonostante tutto, fa il suo ingresso nella promettente America da una porta di servizio. Bruno (Joaquin Phoenix) le garantisce l’inizio di una nuova vita ma la forza a prostituirsi. E poi l’occasione del riscatto, Orlando il prestigiatore (Jeremy Renner), che offre una prospettiva di vita molto più concreta verso occidente. Così è lasciata a due uomini la rappresentazione del popolo che accoglie. Sono anche loro cugini, ma caratterialmente agli antipodi controbilanciano il tema sviluppato dalla seconda metà della storia: come e se sia possibile cavalcare l’onda delle opportunità, impossibili da scindere da sentimenti come l’amore.
Cosa ne rimane del finale? Nonostante Ewa si ricongiunga a Magda ci si sente lontani dalla protagonista, come l’inquadratura della Statua della Libertà all’inizio del film: uno zoom in allontanamento. Lontani da ogni patria e popolo, da conquiste ed occasioni, da sentimenti vivi e brillanti. Il futuro deve comunque essere affrontato.
Giulia Peruzzotti
C’era una volta a New York (The Immigrant)
Regia: James Gray. Sceneggiatura: James Gray, Richard Menello. Fotografia: Darius Khondji. Montaggio: John Axelrad. Interpreti: Marion Cotillard, Joaquin Phoenix. Origine: USA, 2013. Durata: 119’.