I cellulari. Le onde magnetiche. Quei grandi piloni che deturpano il paesaggio con i loro ronzii elettrici, le scariche, gli impulsi invisibili che solcano l’etere. La comunicazione che diventa virale, infettiva, onnipresente. La Grande Rete che tutto unisce e a tutto collega. Il cinema dell’orrore opera in questo modo misterioso, quando vuole analizzare il presente, scava nel passato; quando desidera visualizzare qualche garbuglio della modernità, ecco che sbandiera un prodotto tecnologico che di contemporaneo, di innovativo, di attuale ha ben poco. Cosa c’è di più superato di un cellulare? Il telefonino fa parte del nostro quotidiano quanto il computer, il registratore o il televisore, cioè strumenti che da decenni sono entrati nelle nostre case, e di cui non notiamo nemmeno più la presenza. Sono oggetti d’arredamento, estensioni delle comuni abitudini domestiche, proprio come lo spazzolino da denti o le pantofole. Eppure è a questi strumenti che il cinema, con ciclica inesorabilità, guarda. Poltergeist (1982) aveva un televisore per protagonista, ma in realtà se la prendeva con il videoregistratore che proprio in quegli anni faceva disputare sui banchi degli avvocati la Sony da una parte e la Disney/Universal dall’altra; The Ring (versione giapponese e americana, del 1998 e del 2002 rispettivamente) scomodava il videoregistratore, in verità puntava il dito addosso a internet e a quello che ne sarebbe stato delle immagini e della loro riproducibilità tecnica. E Cell invece? È un film metonimico, anzi è un’equazione: sta al telefonino come la paura del cambiamento tecnologico sta all’opinione pubblica che non riesce a metabolizzarne gli effetti. Cosa stiamo diventando? Come ci stanno schiavizzando gli strumenti di comunicazione? E soprattutto in che cosa si stanno evolvendo?
È questa l’idea alla base del noto romanzo di Stephen King da cui il film è tratto; è questo lo spunto che interessa a Tod Williams, già regista di Paranormal Activity 2 (2010), quando decide di metterne in scena la versione cinematografica. Un virus si intrufola nelle menti di milioni di persone che stanno parlando al telefono, e le fa impazzire. Le trasforma in cannibali sanguinari, in zombi mostruosi affamati di carne umana. Certo bisogna resistere, è necessario. C’è qualcuno che ancora ci crede, qualche disperato convinto che possa esistere un luogo, da qualche parte, in cui non ci sono tralicci, l’orizzonte è piano, la cupola del cielo priva di interferenze… Sono soltanto due, nel film di Williams: John Cusack, disegnatore, fumettista, romantico; Samuel L. Jackson, un negro. Personaggi destinati a perdere, per principio. E a sognare, come si confà a ogni minoranza che si rispetti. Ma il cambiamento è inesorabile, l’evoluzione dell’uomo destinata a compiersi: presto, infatti, gli sparuti sopravvissuti scopriranno che dietro l’apparente bestialità degli appestati c’è un ordine logico, una parvenza di organizzazione, come se fossero tutti parte di qualcosa di più grande, di totemico: una grande antenna parabolica che ne azzera le menti, una frequenza impazzita dal cui disordine indescrivibile emerge una disciplina inquietante. Il virus infatti muta, perché è un’infezione fatta di onde sonore, di magnetismo artificiale, di suoni che si propagano nell’ambiente. È un rumore cosmico che agisce a livello impercettibile, sull’inconscio, sui neuroni, sui meccanismi più nascosti della volontà.
Williams dirige, Stephen King scrive. Cell ha un grande difetto: non ha conflitti. I suoi personaggi sono uniti nel dispiacere, solidali nella follia che divampa nel mondo: non litigano, non si accapigliano, riescono sempre a trovare il compromesso. Al di là di questo, resta l’idea di un conflitto profondo, irrisolto, tutto interno a una società che cambia suo malgrado, ma che ancora non capisce in che direzione andare.
Marco Marchetti
Cell
Soggetto: Stephen King. Sceneggiatura: Stephen King, Adam Alleca. Regia: Tod Williams. Fotografia: Michael Simmonds. Montaggio: Jacob Craycroft. Musiche: Marcelo Zarvos. Interpreti: John Cusack, Samuel L. Jackson, Isabelle Fuhrman, Stacey Keach. Origine: USA, 2016. Durata: 98′.