C’è un favorito per la Palma d’oro del 77° Festival di Cannes, ed è l’iraniano The Seed of the Sacred Fig di Mohammad Rasoulof, arrivato l’ultimo giorno e accolto con applausi calorosissimi e quasi unanimi. Una pellicola che contiene i due grandi temi dell’edizione, le donne e il potere con le sue manifestazioni, e darebbe la Palma all’Iran che l’ha vinta solo nel 1997 con Il sapore della ciliegia di Abbas Kiarostami. La corsa a succedere nell’albo d’oro ad Anatomia di una caduta di Justine Triet è però molto aperta e sono diversi, tra i 22 che erano ai nastri di partenza, i titoli che hanno possibilità di salire sul palco delle premiazioni. Il regista persiano de Il male non esiste, Orso d’oro alla Berlinale 2020, era molto atteso dopo aver lasciato clandestinamente il suo Paese, dove era stato pure incarcerato due anni fa, e si è confermato.
Tra i più accreditati per il premio maggiore figurano l’inglese Bird di Andrea Arnold, Emilia Sanchez di Jacques Audiard e Caught by the Tides del Jia Zhang-ke. La Arnold, da ricordare per Red Road, Cime tempestose e American Honey, ha portato una sorta di favola proletaria per una giovane di una cittadina britannica che deve qualcosa a Il cielo sopra Berlino. Il francese Audiard, già Palma d’oro con Deephan nel 2015, mette in musical, con eleganza formale, il cambio di sesso di un trafficante di droga messicano e la sua doppia vita. Da possibile premio anche le interpretazioni di Zoe Saldana e Karla Sofia Gascon. Il regista cinese prosegue la sua storia non ufficiale della Cina, riprendendo i personaggi del suo Still Life (Leone d’oro a Venezia nel 2006) come Tao (Zhao Ta, moglie e musa del cineasta) che dal 2001 arriva ai giorni nostri, in un viaggio sorprendente nel tempo.
Audiard è l’unico in gara ad avere già vinto insieme a Francis Ford Coppola che è nel ristretto gruppo dei vincitori di due Palme, nel 1974 con La conversazione e nel 1979 con Apocalypse Now. Il suo complesso e visionario Megalopolis, che esplora come finiscono gli imperi creando in parallelo con quello Romano ma denota anche una grande voglia di futuro, è stato però accolto piuttosto ingenerosamente
I festivalieri più giovani hanno invece molto amato The Substance di Coralie Fargeat, ma è difficile che un altro body horror vinca il festival due anni dopo Titane, sebbene questo sia più godibile e meno irritante: l’opera non manca di trovate e si avvale delle belle interpretazioni di Demi Moore e Margareth Qualley e potrebbe conquistare un altro riconoscimento. I premi, assegnati dalla giuria presieduta da Greta Gerwig e comprendente anche Pierfrancesco Favino, sono aperti a tante soluzioni e tra i pronosticati c’è pure un commuovente Richard Gere, documentarista ormai morente in Oh Canada di Paul Schrader.
Da non dimenticare le atmosfere esotiche di Grand Tour di Miguel Gomes, che ambienta nel 1918 un doppio viaggio nel sudest asiatico, una storia d’amore particolare, tra paura di amare e forse non avere gli stessi gli stessi tempi per amare, ma anche un’esplorazione della finzione e del tempo.
Come possibile sorpresa ci si può giocare il raffinato All We Imagine As Light, secondo film dell’indiana Payal Kapadia, altra storia di donne tra città e villaggi, tra passato e futuro, tra grattacieli e scogliere, tra relazioni da lasciare alle spalle e altre da coltivare. Una pellicola elegante (nonché tra le poche a non avere scene violente o cruente) che ha riportato in gara a Cannes dopo 30 anni il subcontinente, presente con due titoli anche nella sezione parallela Un certain regard.
L’Italia ha presentato in gara Parthenope di Paolo Sorrentino, che ancora una volta ha diviso con il suo omaggio a Napoli dal 1950 e lo scudetto, tra La grande bellezza ed È stata la mano di Dio, per la prima volta con una protagonista femminile. Il regista premio Oscar ha avuto una buona accoglienza all’estero e non è detto che Favino non possa spingerlo, oppure battersi per Chiara Mastroianni che si districa molto bene contro e dentro il fantasma del padre in Marcello mio di Christophe Honoré.
da Cannes, Nicola Falcinella