Il film più commuovente del 76° Festival di Cannes, almeno del concorso, arriva all’ultimo minuto e porta il marchio inconfondibile di Ken Loach. Il suo The Old Oak è una favola realista ambientata nel 2016 nord dell’Inghilterra, in una ex cittadina mineraria, fatta di strade dritte e case in mattoni a vista disposte in fila. Proprio una delle aree tradizionalmente laburiste che pochi mesi dopo votò a favore della Brexit. Davanti a una di queste porte si ferma un autobus carico di profughi siriani, accolti dalle proteste di un gruppo di residenti che nella foga della protesta buttano per terra la macchina fotografica della giovane Yara. Quest’ultima ha appreso l’inglese negli anni trascorsi nei vari campi di accoglienza e chiede aiuto a TJ Ballantyne, sessantenne padrone del pub del titolo, l’unico luogo di ritrovo rimasto nella zona in declino. L’uomo non ha che la compagnia del cane Marra e degli avventori di lunga data, che gli permettono di mantenere l’attività. I clienti, compreso l’amico storico Charlie, guardano male la sua disposizione verso i nuovi venuti e iniziano a rumoreggiare e protestare, persino a offendere. Qui entra tutta la maestria del regista scozzese con il fido sceneggiatore Paul Laverty nell’indirizzare la vicenda. Tutto è preciso e credibile (solo l’attrice che interpreta Yara appare un po’ legnosa), a cominciare dai dialoghi che si possono ascoltare in tanti bar e che gli autori riescono a non rendere mai didascalici.
Loach chiama in causa tutta la vecchia classe operaia che nell’ultimo trentennio si è spostata a destra, in Gran Bretagna come in Italia e in tutta Europa, su posizione anti-immigrati, vedendoli solo come intrusi e nemici, e la invita a rivedersi in loro, a riconoscersi e a stare dalla stessa parte. “Chi mangia insieme, resta unito” è il motto, ripreso dalle lotte degli anni ‘80, che il regista scozzese fa diventare realtà, aggiungendo un tocco di magia e di favola che per Loach e Laverty non è nuova, basti ricordare Un bacio appassionato, La parte degli angeli o Il mio amico Eric. Come l’Aki Kaurismaki di Fallen Leaves” (i due, pur con stili molto diversi, sono stavolta molto vicini nello spirito e nelle intenzioni), il britannico mette da parte il pessimismo di tante sue opere per lasciare una speranza di umanità, non parla per partito preso, mette davvero in pratica la solidarietà e mostra che si può fare. Su tutto c’è l’incredibile interpretazione del protagonista Dave Turner, che era già in Io, Daniel Blake e Sorry, We Missed You, che porta addosso la vita vera e una sensibilità rara. Senza dimenticare la sempre esemplare colonna sonora di George Fenton, da una parte impercettibile, dall’altra vibrante con le emozioni dei personaggi. Il regista è un “marra” (il nome del cane di TJ e termine gergale dei minatori per indicare gli amici e compagni di lavoro molto stretti) dei suoi personaggi, non è mai ricattatorio neppure nei momenti più commuoventi.
Se Loach ha già vinto due Palme, proprio come lo svedese presidente di giuria Ruben Östlund, e difficilmente farà il tris che nessuno ha mai raggiunto, un premio importante al film, magari per Turner, sarebbe meritatissimo e opportuno.
Completamente da altre parti è L’été dernier – Last Summer di Catherine Breillat. Un ritorno sui grandi palcoscenici per la cineasta che ha iniziato collaborando come attrice, sceneggiatrice e assistente con tanti cineasti italiani, Bertolucci, Cavani, Fellini e Bellocchio e ha fatto scandalo a cavallo del secolo con Romance, Pornocrazia e A mia sorella!. Oggi è molto più difficile fare scalpore con temi legati alla sessualità, ma la Breillat resta legata alle sue ossessioni, portando a casa un film che a suo modo funziona. Il contesto sociale de L’été dernier è opposto a quello di Loach: una famiglia abbiente, lui manager in una grande azienda, lei avvocato, in un’immensa villa in campagna. Anne (Léa Drucker, che era la madre del protagonista Leo in Close premiato nel 2022) è sposata con Pierre, parecchio più grande di lei, e insieme hanno adottato una coppia di bambine asiatiche. Da una precedente relazione l’uomo ha un altro figlio, il diciassettenne Théo, ribelle, disordinato e ostile verso la donna. Dopo che l’adolescente ha rubato in casa, Anne cerca di cambiare atteggiamento per ottenere un comportamento diverso: la donna ottiene un risultato positivo, ma poi si innesca una focosa relazione passionale tra i due. Per essere un film di Breillat, è quasi pudico, i rapporti sessuali sono giocati soprattutto sui primi piani. Lo sviluppo è abbastanza intuibile, ma lo rende interessante il fatto che Anne si occupi della difesa di ragazze minori vittime di violenze o rapporti non consenzienti (il prologo è indicativo). Si innesca un corto circuito che porta a farsi domande sulla manipolazione, sul consenso, sulla verità, sull’affermazione della verità e sull’accettazione di ciò che non si vorrebbe ammettere. Ottima l’interpretazione della Drucker, ma il giovane Samuel Kircher è una scoperta e si può scommettere sul suo avvenire.
da Cannes, Nicola Falcinella