Una Palma d’oro del 76° Festival di Cannes che ha sorpreso molti, almeno in Italia, ma che era abbastanza prevedibile. Il film Anatomie d’une chute – Anatomy of a Fall di Justine Triet era già alla vigilia molto spinto dai francesi, dalle testate (i Cahiers ma non solo) che si fanno interpreti delle tendenze e ne portano gli stendardi, cosa molto importante per vincere premi di peso sulla Croisette, e ha poi ricevuto un’ottima accoglienza alle proiezioni. Di certo è un bel film che ha meritato il riconoscimento, anche se forse non detterà tendenze, e non può essere etichettato come premio attribuito a una regista donna solo in quanto donna (uscire da queste logiche farebbe bene a tutti), in quanto era uno dei più convincenti del concorso. Per molti, e anche per chi scrive, la Palma più giusta sarebbe stata quella a Fallen Leaves del grande finlandese Aki Kaurismaki, che si è dovuto accontentare del Prix du jury, un riconoscimento di secondo piano. Il cinema di Kaurismaki ha però da sempre un problema con le giurie, non è un caso che in oltre trent’anni di una carriera di altissimo profilo non abbia mai trionfato in un grande festival. Gli altri film che si staccavano dalla media erano About Dry Grasses del turco Nuri Bilge Ceylan e Monster del giapponese Kore-Eda Hirozaku, entrambi registi già vincitori in passato, premiati rispettivamente per la migliore attrice e la sceneggiatura. A ridosso si può collocare il film della Triet, al quarto e suo migliore lungometraggio: l’interessante esordio La battaglia di Solferino (2013), Tutti gli uomini di Victoria (2016) e Sybil – Labirinti di donna (2019), già questo in concorso a Cannes sebbene non avesse entusiasmato.
Triet non esce dal nulla ed è l’espressione dell’apparato culturale e industriale del cinema transalpino: non è casuale il suo discorso accorato sul palco contro le riforme delle pensioni di Macron e a difesa dell’eccezione culturale francese. L’essere parte di questo sistema, una fortezza che al momento pare inespugnabile (su 21 film in concorso ben 11 erano coproduzioni francesi, compresi i tre che consideriamo italiani di Nanni Moretti, Marco Bellocchio e Alice Rohrwacher), non toglie nulla al premio ma fa capire alcune dinamiche che stanno dietro ai palmares e, soprattutto, alle selezioni. Il problema del Festival, al di là di una bella edizione tanto di film (con un buon livello medio generale) tanto di nomi di richiamo, è l’essere sempre più franco-centrico: da una parte un’industria che entra in coproduzione con molti Paesi del globo, compresi molti degli emergenti, per esercitare un suo potere culturale (e politico), dall’altra una vetrina che dà la precedenza a chi porta il tricolore blu-bianco-rosso. La kermesse che sta diventando sempre più elefantiaca, con sempre più film che non è detto che guadagnino visibilità, al massimo porteranno il logo della palma stilizzata al momento dell’uscita in sala.
È il caso della sezione Cannes Première, comprendente film belli, anche molto, che può essere anche la sezione acchiappatutto o contentino, come nel caso dello splendido Cerrar los ojos del grande Victor Erice che si sarebbe aspettato il concorso e ha scritto una polemica lettera aperta.
Il palinsesto del Festival sembra allestito da un sadico che si diverte a sovrapporre le proiezioni di film in gara o di grandi nomi, anche di pochi minuti, costringendo a scegliere tra uno e l’altro, oppure mettendo le proiezioni stampa alle 23. La scelta fatta qualche anno fa di proiettare i film solo in contemporanea alla proiezione ufficiale, per evitare ai registi lo stress di eventuali reazioni negative nelle anticipate per la stampa (come se chi va in concorso a Cannes non dovesse essere pronto anche a questo, invece di serviti lunghi applausi di routine per le presentazioni con autori e cast in sala), ha sempre più ripercussioni negative sull’intera programmazione, oltre che sul lavoro dei giornalisti.
Un discorso a parte meriterebbe il Marché du film, tornato a livelli pre-pandemia, il luogo dove davvero si decidono le cose. Ormai un mondo parallelo al Festival, come già avviene a Berlino e in tutti gli altri contesti dove c’è un “Industry” forte. Le due dimensioni, quella festivaliera, dove i film si guardano e si discutono, e quella dei mercati, dove i film si fanno, si vendono e si comprano, sono sempre più distinte e sempre meno dialoganti tra loro. E la prima sembra sempre meno importante per la seconda.
Nicola Falcinella