Conclusa con la Palma d’oro a Shoplifters che consacra il giapponese Kore-Eda Hirokazu (vedi speciale premiazione), l’edizione 71 del Festival di Cannes suggerisce alcune riflessioni. Dal 1997, da L’anguilla di Shoei Imamura, il Giappone non otteneva il premio maggiore sulla Croisette. E in questo ventennio anche l’Asia aveva vinto una sola volta, nel 2010, con Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti del tailandese Apichatpong Weerasethakul. Il grande continente è stato tra i protagonisti quest’anno e ne è uscito giustamente premiato.
A giudicare dai film nel programma nelle diverse sezioni, è stata una buona edizione. Non memorabile, non particolarmente scoppiettante, ma certamente di livello superiore al deludente 2017 e con un buon numero di film che arriveranno nelle sale e varrà la pena di consigliare al pubblico più o meno cinefilo. Nel concorso c’erano molti grandi autori già affermati, da Kore-Eda a Matteo Garrone, da Nuri Bilge Ceylan a Jia Zhang-ke, da Lee Chang-Dong a Spike Lee, da Jean-Luc Godard a Jafar Panahi a Asghar Farhadi, e si sono confermati quasi tutti. L’unico sotto i suoi standard è stato Farhadi, in una trasferta spagnola non troppo nelle sue corde. Forse le novità della gara non hanno brillato, ma può capitare. Certo, un’opera come Donbass di Sergei Loznitsa sarebbe stata bene nella competizione per la Palma, ma la collocazione tra le sezioni è discrezione di direttore (delegato generale nel caso di Thierry Fremaux) e selezionatori, e a posteriori è più facile osservare i bilanciamenti. Con il premio alla regia, Loznitsa ne è uscito comunque rilanciato anche come regista di finzione dopo A Gentle Creature che non era stato molto capito. Forse la linea della selezione è molto autoriale e con un occhio all’impegno sui temi sociali: il rischio è che Cannes possa diventare una Berlinale con nomi più grossi. Del resto è anche il cinema che sta cambiando e i festival, per quanto orientino, prendono ciò che passa il convento.
Non ci sono stati molti film americani o dei grandi Studios, ma non sono mancate le star. Il no ai film di Netflix o destinati a uscire nelle sale può apparire una battaglia di retroguardia o protezionistica, ma è anche una difesa dell’identità della manifestazione e del linguaggio cinematografico. Cannes ospita già una kermesse per la produzione televisiva e Netflix, per non parlare delle serie, ha molto più a che vedere con la Tv che con il cinema. Distinguere i due linguaggi dovrebbe essere l’esigenza del cinema d’autore, un po’ in affanno tra il sistema commerciale multimediale e la nicchia più di ricerca che si muove verso l’arte contemporanea. Il Festival cerca di difendere, pur con qualche contraddizione, la sala cinematografica e lo fa con le armi, forse spuntate, che ha: questa sorta di resistenza può essere forse un incentivo a riflettere su un panorama in veloce trasformazione, per non lasciar trionfare le forzature di monopolisti o quasi, in grado di infrangere le regole esistenti e porsi in posizione dominante. Allo stesso tempo, è sempre più difficile riuscire a vedere il festival nel suo insieme e poter fare valutazioni generali tenendo conto di tutti i suoi tanti aspetti. L’impressione è che quest’anno si sia mossa meno gente intorno al festival, tra i curiosi più che tra gli addetti ai lavori. I controlli di sicurezza blindano ormai un’area sempre più larga intorno al Palais e agli hotel principali, tengono a distanza le persone, con meno possibilità di vedere le star seppure da lontano. Se calano le possibilità di un autografo, di un selfie o anche uno scatto rubato, può crescere la disaffezione verso la manifestazione. L’anticipo di una settimana rispetto al calendario solito può non avere favorito le presenze.
Altro aspetto non nuovo con cui fare i conti è che gli attori sono stati superati in notorietà e visibilità da personaggi più o meno effimeri della moda o di altri campi dell’intrattenimento. Sulla celebre Montée des marches non si bada più tanto agli interpreti e ai registi dei film, quanto a chi va a guardarli, a come sono vestiti e da chi. Vanno bene il colore e il gossip, ma ormai i tappeti rossi sono diventati passerelle al servizio degli sponsor e i film sono spesso solo un pretesto. Rimettere i film al centro come si era proposto Fremaux è un compito arduo e, anche qui, la forza di Cannes non basta. L’aver aggiunto proiezioni ha reso più facile, soprattutto rispetto alle ultime annate, per i giornalisti accedere alle sale e vedere tutti i film. Non permettere loro di vederli in anticipo, e quindi di scriverne per l’indomani come sarebbe opportuno, rischia di togliere ancora spazio alla critica e ai ragionamenti e lasciare campo libero a chi misura i minuti d’applausi o rilancia un commento a caldo di qualche celebrità di passaggio o diffonde notizie non vere o male interpretate. Esemplare il caso dei giornalisti che avrebbero abbandonato la sala nel corso della proiezione di The House That Jack Built di Lars Von Trier, uno dei titoli migliori dell’edizione. Cannes resta costosissimo e diventa sempre centrifugo e più impegnativo da seguire. La forza del Marché du film lo rende ancora quasi immancabile per gli addetti ai lavori, il ritrovo annuale europeo per gli operatori mondiali e il luogo più ambito dove promuovere i propri lavori.
Quanto ai registi, la Palma laurea finalmente Kore-Eda, premiato a Venezia nel 1995 per l’esordio Maboroshi e in concorso a Cannes già nel 2001 con Distance. Negli anni il nipponico si è rivelato un maestro che parla sottovoce, un cineasta nel solco di Yasujiro Ozu, uno che crede nelle relazioni umane, le investiga e cerca di comprenderle. Un regista che ha fatto dei rapporti familiari, intesi nel senso più largo, il cuore della sua poetica. Pellicole che parlano di accettazione e di legami che vanno oltre i vincoli di sangue. In Shoplifters le cose non sono mai come sembrano, la situazione che si presenta nelle prime scene nasconde segreti, ma è la naturalezza con cui il regista mostra a lasciare il segno. Un cinema che si fa grande senza sottolineature, senza dover mostrare i muscoli.
Interessanti le sintonie in due film in apparenza distanti come Pope Francis – A Man Of His Word di Wim Wenders e Le livre d’image di Jean-Luc Godard, entrambi, come suggeriscono i titoli, sul linguaggio. Wenders prosegue il discorso iniziato ne Il sale della terra facendo un ritratto, istituzionale ma sentito e non ingessato, di Papa Francesco. Un Pontefice che ha fiducia nella parola ma ne vede i limiti, soprattutto la vede fuori moda in un mondo poco disposto ad ascoltare: è un mondo “sordo”, constata deluso. Non si tratta di una biografia, Wenders guarda al messaggio e ai modi e gli stili attraverso cui il messaggio passa. Si parte da Assisi e da S. Francesco, dove si inizia e dove si dovrebbe arrivare, anche con frammenti di cinema muto e in bianco e nero. Assisi, eredità di S. Francesco (interpretato da Ignazio Oliva in b/n), per arrivare a Francesco. Alternate alle immagini di un’intervista nei giardini vaticani, ci sono i viaggi e le udienze. Papa Bergoglio parla dell’emergenza ambientale (“la più povera di tutti è la nostra madre Terra”) e dell’enciclica Laudato si’. In parecchie occasioni, Wenders usa immagini e situazioni già note (il celebre “chi sono io per giudicare?” a proposito dell’omosessualità) per evidenziare il contesto dove sono dette. Tornano molti dei temi cari a Francesco, esposti tra ragionamento ed emozioni, cercando di fare incontrare le ragioni dell’umanità e della fede. E conclude parlando del sorriso e loda il senso dell’ironia. Potrebbe sembrare paradossale, e non lo è, ma anche Jean-Luc Godard ha la medesima visione di un mondo sordo. Le livre d’image, premiato con la Palma d’oro speciale, è un montaggio che parte dalle mani e dalle dita e si sviluppa tra politica e nostalgia, provocazione e profezia, nel segno del cinema, da Un chien andalou al can-can de Il piacere. In un mondo sommerso da lettere, che non ha orecchie per ascoltare, le parole non diventeranno mai linguaggio, è la constatazione amara di Godard.
Di linguaggio tratta anche Stéphane Brizé in En guerre. Una vera e propria guerra si combatte tra gli operai e i dipendenti di una fabbrica francese di proprietà tedesca e i manager che vogliono chiuderla per delocalizzare. Nell’impotenza della politica, con il governo che invoca incontri ma non può incidere e l’evanescenza del sindacato, resta impressa l’impossibilità di trovare un terreno comune di confronto tra le parti. Parlano lingue diverse in uno sconfortante dialogo tra sordi che il regista riesce a cogliere con efficacia.
Nicola Falcinella