Dopo due Gran Prix, per Uzak e C’era una volta in Anatolia, è arrivata finalmente la Palma d’oro per il turco Nuri Bilge Ceylan con Winter Sleep. È la seconda vittoria della Turchia, dopo quella del 1982 con Yol – La strada di Yilmaz Guney e Serif Goren, ed è sicuramente meritata. Per l’Italia un premio inatteso e molto al di sopra del valore de Le meraviglie. Alice Rohrwacher ha ottenuto il Gran Prix, il secondo per importanza, lo stesso andato negli ultimi anni a Matteo Garrone sia per Gomorra che per Reality. Jane Campion presidente di giuria è riuscita a dare un riconoscimento di peso a una regista donna, tra le due in gara. E, se proprio di quote rosa si doveva trattare, sarebbe stato meglio premiare il giapponese Still the Water di Naomi Kawase, che su amore, morte, natura ha tanto da dire. Il Premio della Giuria è andato ex equo al regista più vecchio e al più giovane, Jean-Luc Godard per Adieu au langage e Xavier Dolan con Mommy. Quest’ultimo avrebbe merirato di più per un film che è il suo più maturo e ne conferma il grande talento: forse un po’ ruffiano, il venticinquenne canadese, già al quinto lungometraggio, è capace di raccontare storie coinvolgenti in uno stile personale e a suo modo innovativo. In pianto sul palco, il canadese ha detto che “non solo i politici possono cambiare il mondo, ma anche gli artisti, anche quelli che sognano e lavorano. E il mondo va cambiato”. Godard, un mito vivente, non si è fatto vedere al festival, neanche per ritirare il premio: il suo film in 3D è abbastanza in linea con i suoi più recenti e prosegue il suo percorso di sperimentazione formale e di discorsi filosofici. Tra i tanti film, tra i 18, che meritavano un riconoscimento, la giuria ci ha beccato abbastanza, ma con dimenticanze gravi, cominciando dal capolavoro Deux jours, une nuit” dei fratelli Dardenne, Timbuktu di Abderrahmane Sissako e The Homesman, western contro mano da ovest a est di e con Tommy Lee Jones e una intensa Hillary Swank. Meritati i premi per gli attori, anche se le interpretazioni notevoli erano parecchie, a Julianne Moore per Maps to the Stars di David Cronenberg e a Timothy Spall per Mr. Turner di Mike Leigh. Miglior regista l’americano Bennett Miller per Foxcatcher e migliore sceneggiatura a Leviathan del russo Andrei Zvyagintsev, entrambi ottimi film, drammoni uno tra sport e grandi dinastie americane (ispirato ad una storia vera), l’altro contro la protervia dei politici putiniani ai bordi del mare Artico. Ceylan era uno dei grandi favoriti e nonostante un film di tre ore e 16 minuti, molto parlato, sulle relazioni umane e un sotto testo polico ha vinto meritatamente. “È una bella coincidenza che arrivi per i 100 anni di cinema turco. Dedico il premio a tutti i giovani della Turchia, soprattutto a quelli che sono morti nell’ultimo anno”, ha dichiarato il regista facendo attenzione alle parole ma con chiaro riferimento alle proteste contro Erdogan. Per Ceylan, premiato anche dalla giuria Fipresci della critica, la conferma della grandezza. La Camèra d’or per la migliore opera prima è andata al francese Party Girl di Marie Amachoukeli, Claire Burger e Samuel Theis, trascinante e coinvolgente storia vera di una donna di mezz’età che all’ultimo minuto manda all’aria il matrimonio con un uomo che non ama abbastanza. Per certi versi, i temi sono quelli di Gloria di Sebastian Lelio, con meno stile ma tanta passione. La Palma per il miglior corto è invece andata in Colombia, a Leidi di Simon Mesa Soto.
da Cannes, Nicola Falcinella