È l’espiazione di un innocente il tema centrale di Calvario, cioè di una colpa che, proprio perché non c’è o che forse, paradossalmente, c’è nel suo non esserci, non può nemmeno essere espiata se non nell’intenzione allegorica che il suo carnefice vuole darne. A farne le spese l’innocente per antonomasia, un prete cattolico (Brendan Gleeson) a cui un parrocchiano, nel segreto del confessionale, rivela la sua volontà di ucciderlo entro una settimana. Il suo crimine? Essere esente da responsabilità, proprio come lo era il misterioso interlocutore quando, ancora bambino, venne stuprato da un sacerdote, ora deceduto. È un’Irlanda senza tempo, quella in cui John Michael McDonagh ambienta le sue turpitudini di provincia, senza tempo perché universale, metonimica, intrinsecamente connaturata all’animo umano proprio come i suoi silenzi, le distese di verde campagna, il mare che sussurra, romba e si abbatte tra i faraglioni. È forse evidente che in un paesino così lontano dalla civiltà, eletto a romitorio da padre James proprio perché gli sia più facile suturare le ferite lasciategli dalla vedovanza e da una figlia problematica (Kelly Reilly), si esibiscono come moderna danse macabre i vizi e le piccole meschinità della “plebaglia” contadinotta: la sposa messa a nudo, letteralmente, dal meccanico di colore con tanto di consenso del marito; i biechi personaggi da pub irlandese, che si burlano della toga sacerdotale, che spettegolano e malignano di ogni avventore, che accolgono con scanzonato disincanto la notizia di una chiesa che brucia; un ragazzetto psicopatico, reo confesso di numerosi omicidi, che prima dell’arresto vagheggia di poter arruolarsi nell’esercito e trovare così giustificazione di stato ai propri delitti. Padre James ascolta, confessa, assolve senza mai giudicare, lasciandosi guidare dalla coscienza, alle volte vacillando, altre forte di quel potere misterioso che forse viene da più alte sfere.
Brendan Gleeson, attore versatile e feticcio, si adatta al suo ruolo da prete stentatamente contenuto nel suo abito talare. McDonagh l’aveva già diretto nel suo film precedente, Un poliziotto da Happy Hour (2011), dove invece indossava la divisa del tutore dell’ordine, facendone però un personaggio esuberante, corporale, ben allineato alla sua fisicità dirompente e casinara. Qui l’abile regista scombina le carte in tavola, e costruisce una storia tutta basata sull’accettazione dell’inevitabile, sulla disarmante inutilità dell’azione umana. È una recitazione compunta, la sua, che lavora per sottrazione, che dà spazio ai silenzi del personaggio, che si sintonizza sui lunghi, forse appena ridondanti, dialoghi dei suoi concittadini: che parlano, certo, ma soltanto per superbia, che fanno del vaniloquio l’esternazione di peccati orgogliosamente esibiti, che tutto desiderano tranne accettare con serietà il pentimento. E di cosa si deve pentire colui che prospera nel vizio, che offende Dio rinnegando non il suo potere, non la sua autorità, ma la sua benevola presenza assolutoria? McDonagh riscrive la sua Spoon River di morti in vita, di peccatucci nascosti, scheletri sepolti nell’umidità ammuffita di vecchie cantine, e lo fa con una leggiadria che nulla invidia ai ritmi di una natura maestosa, dove l’essere umano appare più come errore evolutivo, o stranezza della creazione, che parte integrante di un marchingegno sofisticato. Chiunque, in Calvario, rifiuta la mano di padre James, non per una specie di paganesimo sotterraneo, di animismo ancestrale o semplice gusto per l’invettiva anticattolica, ma per la stessa meschinità che guida i suoi infimi parrocchiani. Se è vero com’è vero che non esistono atei in punto di morte, il rapporto con la divinità si palesa (si giustifica, si assolve, si determina?) proprio con la paura della dissoluzione corporale. Finché c’è vita, sembra essere il messaggio del film, non c’è nemmeno bisogno della supposizione di Dio. Che significato ha la scena dei due addetti aeroportuali che chiacchierano sbracati su una bara, se non il rinnegamento dello stesso principio soteriologico, più che esorcizzazione della morte in sé?
Tutto ciò che resta a padre James, prima di quell’ultima passeggiata sulla spiaggia, prima dell’incontro con il carnefice, è osservare inebetito un ricco finanziere, annoiato dal denaro, dal potere, dal vizio, urinare su un quadro di Holbein il Giovane, oppure un prestante marchettaro sculettare mezzo nudo nell’elegante magione di un poliziotto. Sarà magari un collegamento casuale, eppure l’umanità effigiata da McDonagh non si discosta di molto da quella speculare, ma ancora più abbruttita, perversa e perigliosa di Fabrice Du Welz che, in un altro Calvario cinematografico (Calvaire, 2004), aveva dato corpo all’orrore della provincia. Orrore fisico, più che metaforico. Il regista di Calvario versione irlandese è certo intimistico, la sua ossessione per il corpo richiama il particolareggiato dettaglio di una vanitas fiamminga più che la ferocia di una pellicola horror. Tuttavia è sempre l’introspezione a dominare i suoi caratteri, la ricerca di una verità enigmatica e soprattutto l’idea, appena abbozzata ma nondimeno onnipresente, di un martirio che è consustanziale alla scoperta del divino, nonché riflesso fedele di un sentire tipicamente nordico (quindi, con paradosso, protestante): non sono le opere a salvare l’uomo, ma la grazia concessa in virtù del sentimento di fede. Almeno così si spera.
Marco Marchetti
Calvario
Regia e sceneggiatura: John Michael McDonagh. Fotografia: Larry Smith. Montaggio: Chris Gill. Musica: Patrick Cassidy. Interpreti: Brenda Gleeson, Kelly Reilly, Chris O’Dowd, Aidan Gillen, Dylan Moran, David Wilmot. Origine: Irlanda/UK, 2014. Durata: 102′.