L’america degli Stati Uniti è un paese costruito per stratificazioni. Un paese che non ha ancora conosciuto la densità delle terre asiatiche e che forse non la conoscerà mai, ma che si è identificato sulla compresenza di culture diverse, non sempre dialoganti a dire il vero. Poi c’è New York, città simbolo, crocevia trafficato del mondo, territorio di innamoramenti e di conflitti etnici, la città delle fratture raccontate da Spike Lee, delle comunità nostalgiche e legate alla terra d’origine, nell’epica di Scorsese. E c’è la New York degli irlandesi, che ne hanno fatta una colonia, guardando, come tanti, con fiducia al Nuovo mondo.
Eilis (Saoirse Ronan), giovane donnina di Enniscorthy, piccola cittadina dell’Irlanda sudorientale, a New York ci viene spinta dalla sorella maggiore Rose, convinta di darle l’opportunità di realizzarsi, sacrificando se stessa per fare da supporto alla madre. Il percorso di Eilis – comprensivo di nave stracolma di migranti in cerca di futuro, di arrivo a Ellis Island, poi l’adattamento difficile in un pensionato a Brooklyn, il lavoro come commessa in un grande magazzino – si tinge presto di tinte nostalgiche. Nonostante il lento adattamento non sia scandito da esperienze violente, ma accompagnato da persone comprensive e solidali, gli affetti lontani, soprattutto la generosa sorella, sono un pensiero costante, almeno fino a quando Eilis incontra Tony, simpatico ragazzotto di origini italiane. Improvvisamente Brooklyn cambia faccia. Poi la notizia dell’improvvisa morte di Rose e il ritorno in patria, dove una nuova prospettiva di vita travolge Eilis, ponendola di fronte a un bivio.
Il regista John Crowley e lo sceneggiatore Nick Hornby (già autore di un altro film in costume An Education) firmano un melodramma lineare, senza strattonare il pubblico con conflitti che non siano legati al cuore di Eilis, evitando di minare la strada della giovane migrante con presenze scorbutiche, antagonisti violenti, limitandosi a raccontare una delle tante giovani che migrarono nel dopoguerra verso gli Stati Uniti alla ricerca di un luogo che si pensava ospitale e, in parte, descritto come terra di opportunità. Brooklyn adotta lo sguardo di una giovanissima irlandese per descrivere la difficile condizione psicologica di coloro che hanno dovuto tagliare con il passato per guardare al futuro, sentendo forte il radicamento nel luogo natio, ma altrettanto urgente comprendere il mondo nuovo (significativo che al cinema la ragazza vada a vedere il fordiano Un uomo tranquillo con John Wayne, storia di un pugile irlandese che ritorna a casa). Gira dunque intorno all’appartenenza culturale il film di Crowley, soprattutto quando la protagonista ritorna a Enniscorthy, marcando la distanza tra modelli diversi (simbolicamente la sua postura e gli abiti indossati, gli sbarazzini occhiali da sole). Viene messa in discussione l’identità profonda, perché Brooklyn, New York, la Confederazione, significano meltin’pot, ovvero divenire parte di una nuova identità culturale che è un mix di accenti, colori, profumi.
La ricostruzione è attenta, suggestiva, affascinante. Saoirse Ronan meravigliosa nell’incarnare le fragilità di Eilis e nel descrivere la sua lenta maturazione da adolescente in donna. L’impressione però è che il film offra poco altro a un immaginario già consolidato, costruito su numerosi film sull’immigrazione, vero e proprio sottogenere. La visione è comunque piacevole e, a volte, non manca di incantare gli occhi.
Vera Mandusich
Brooklyn
Regia: John Crowley. Sceneggiatura: Nick Hornby. Fotografia: Yves Bélanger. Montaggio: Jake Roberts. Musiche: Michael Brook. Interpreti: Saoirse Ronan, Emory Cohen, Domhnall Gleeson, Julie Walters. Origine: Irlanda/GB/Canada, 2015. Durata: 113′.