Seguire le peregrinazioni di Luca Guadagnino, il suo saltabeccare incostante tra i generi cinematografici e sessuali, la sua estetica estetizzante e anestetizzante e tutto quello che insomma compone il suo lavoro, è un po’ come seguire le proprie, di peregrinazioni: nel lontano 2005, infatti, ai tempi dell’esordio di Melissa P., feci due previsioni sull’abile regista palermitano; cioè dissi che non aveva alcun talento, e che sarebbe stato riassorbito, come molti mestieranti privi di grazia e brillantezza, nelle retrovie delle fiction RAI. Sul fatto che non avrebbe avuto successo, e che sarebbe stato decapitato dalla ghigliottina della mediocrità televisiva, mi ero sbagliato. Sul fatto che non avesse alcun talento, invece no. Luca Guadagnino non ha mai avuto talento. Mai. È un usurpatore, un simpatico farabutto, un gigione che sa senz’altro accattivarsi le simpatie di un certo pubblico, sofisticato ma non troppo, a cui riuscirebbe a vendere persino la cacca dicendogli che è cioccolato. In questo è senz’altro talentuoso, ma si tratta pur sempre di una virtù di facciata, un biglietto di presentazione che tale rimane.
Questo Bones and All, tratto da un romanzo vagamente adolescenziale della statunitense Camille DeAngelis, è una grande abbuffata di cose fatte per piacere, ma fino a un certo punto: siamo in un’America “ideologica”, la stessa di Zabriskie Point (1970) o di Twentynine Palms (2003), cioè uno spazio che là pullulava di significati e significanti, di icone immaginifiche e modelli metafisici destinati a sgretolarsi e a sgretolare le persone che vi si affacciavano; qui invece abbiamo gli spazi di una provincia anni Ottanta, costellata di casette in legno, scorci di una normalità opaca che forse è mutuata dal solito e logorroico figurativismo di Edward Hopper e della sua cerchia di emuli e scopiazzatori. Oltre questa patente di autoreferenzialità, si muovono due personaggi che in critica letteraria si chiamano outcast: una immancabile ragazza di colore (Taylor Russell) e un adolescente dai capelli tinti (Timothée Chalamet, volto noto della factory di Guadagnino). Per farla breve, i due sono cannibali costretti a vivere come vagabondi, a nascondersi alle persone normali, insomma a mangiare e predare non per necessità di sopravvivenza (di fatto sono onnivori) ma proprio perché i loro stomaci mutanti non ne possono fare a meno.
Certamente parliamo di un canovaccio, un’idea che scomoda sì nelle forme, nella metodologia, nell’impianto generale il genere horror, e che come tale ci regala violenze assortite, mostruosità debordanti, scene imparentate con il peggior splatter d’alto borgo che da un po’ latitava dal grande schermo; ma è appunto una traccia, perché Guadagnino, furbissimo e scaltro come solo lui e pochi altri sanno essere, nasconde in filigrana cose più profonde: un’analisi sulle famiglie difficili, sull’adolescenza, sulle droghe e le dipendenze, e soprattutto sull’amore che “divora il cuore”, letteralmente, come la réclame di una serie rosa scontata al cinquanta percento nei cestoni del supermercato. Siamo sicuri che i più smaliziati, i difensori del canone Guadagnino per partito preso, tenteranno la barricata massimalista appellandosi al solito citazionismo cinefilo: Timothée Chalamet brandisce una specie di clava come lo scimmione di 2001: Odissea nello spazio (1968). Ma basta questo a rendere onesto un film? In una scena la Russell piange disperata, e Guadagnino inquadra con gioia depravata e infantile il muco che sgorga dal suo naso. È un momento raccapricciante nell’economia dell’opera: lei se ne sta lì, con questa candela che oscilla nel vuoto, galleggiando in trepida attesa della manata che la spalmerà per tutta la pelle. E poi Chalamet abborda un omosessuale in un campo di grano, e gli taglia la gola mentre gli fa raggiungere l’orgasmo. Perché questo eccesso? A quale scopo? Guadagnino strizza l’occhio a tutti gli spettatori, è ecumenico come il colonnato del Bernini, catechistico come un adulatore di cose alte che però altri hanno già approntato per lui. Lui non inventa, non sogna, si limita ad assemblare con un senso tutto artigianale le corbellerie di cui il nostro immaginario è ormai saturo. Cospargendole del miele necessario: i turbamenti, la solitudine, l’incomprensione di sé e del mondo circostante, la fluidità sessuale, il trauma dell’età adulta. Nel cinema, come d’altronde nella vita, costoro sono soltanto venditori di fumo capaci di arraffare premi immeritati.
Marco Marchetti
Bones and All
Regia: Luca Guadagnino. Soggetto: Camille DeAngelis. Sceneggiatura: David Kajganich. Fotografia: Arseni Khachaturan. Musiche: Trent Reznor, Atticus Ross. Interpreti: Timothée Chalamet, Taylor Russell. Origine: Italia/USA/UK, 2022. Durata: 130′.