Nei confronti delle icone si hanno generalmente due tipi di reazione: una di ripulsa, l’altra di adorazione; nel primo caso, si tende a dissacrare l’immagine, sottolineandone l’artificiosità, la falsità, la vuotezza, e minimizzandone la portata, spesso intimorendo l’uditorio con sofisticate argomentazioni sociologiche o indagini da scolaretto di pretesa scientificità; nel secondo caso, all’opposto, si aderisce perfettamente al personaggio famoso, al punto di accettarne passivamente ogni scelta, ogni comportamento, ogni performance, in una sorta di mimesi spersonalizzante che ha quasi dell’idolatrico, del fanatico, del religioso. Più difficile, invece, è assistere a un approccio più lucido e ragionevole, quello che di solito contraddistingue il buon cinema, specie quando si cimenta nel tortuoso genere biografico. Le icone, va detto, sono sempre esistite. Dall’antica Grecia al Medioevo, dal Rinascimento all’Ottocento, in ogni epoca troviamo re, politici, atleti, condottieri, riformatori religiosi, la cui realtà storica ha finito per lasciare presto spazio all’idealizzazione – spesso quando gli stessi personaggi erano ancora in vita e non necessariamente sulla spinta della propaganda – fino ad assumere connotati soprannaturali, per non dire divini. Le Avanguardie c’hanno pure provato a rimettere in discussione tutto quanto, ma con scarso e transitorio successo. Poi sono arrivati gli anni ’50, la Coca Cola distribuita a livello planetario, i film di Hollywood, la musica di Elvis e… Marilyn Monroe. Di Marilyn Monroe si è detto di ogni, forse troppo, e ogni tentativo di contenere la sua sfolgorante luminosità è risultato sempre un fallimento, soprattutto quando si sono volute coinvolgere investigazioni o inchieste storico-giornalistiche, presunte fedeltà filologiche, i pettegolezzi pruriginosi o, peggio ancora, la psicoanalisi, quella stessa psicoanalisi, peraltro, che, almeno nel caso di Marilyn, è giunta facilmente alla diagnosi senza riuscire a trovare la cura.
Blonde di Andrew Dominik persegue, più o meno volontariamente, quest’ultima strada, al preciso intento di demolire il mito e chi l’ha creato. Violenze subite durante l’infanzia, madre frigorifero e divorante, padre assente, malattia mentale nel DNA materno, rapporto irrisolto con la propria infanzia e, conseguentemente, con il concetto di maternità, ricerca edipica dell’amore, stupri e sesso orale à gogo, sono gli ingredienti perfetti per dimostrare l’assunto di base, ossia la vuotezza di un personaggio completamente sradicato, che per essere se stesso è costretto a crearsi un’immagine artificiosa – come se l’immagine che le persone ordinarie trasmettono di sé fosse in qualche modo autentica! – nella quale nemmeno la star stessa riesce a credere fino in fondo, tanto sgretolandosi giorno dopo giorno sotto i crudeli colpi di enormi cannoni fallici, di pistolettate pelviche di impresari perversi, di stelle nel cielo notturno che si trasformano in spermatozoi cadenti, feti parlanti e fantomatici padri che scrivono dai recessi più reconditi della mente. Ne consegue che Marilyn non è che un prodotto della follia – individuale e collettiva -, del vuoto morale del capitalismo americano, del mediocre gusto piccolo-borghese più incline al technicolor che al cinema francese in bianco e nero. Nessun accenno allo straordinario talento dell’attrice, ai suoi studi di recitazione pervicacemente voluti e seguiti per cercare costantemente di migliorare, superarsi; nessun riferimento alle sorprendenti interpretazioni in pellicole quali Eva contro Eva, Giungla d’asfalto o in quel capolavoro arrivato in Italia col titolo Gli Spostati; nessun accenno alla sua capacità di imporsi persino sulle decisioni delle major e sulla scelta dei copioni. Ci sarebbe da dire molto anche a proposito delle insospettate capacità poetiche della diva, delle riflessioni profonde scarabocchiate qua e là su fogli volanti, pagine di diario e pacchetti di sigarette, ma sarebbe chiedere troppo e, soprattutto, finirebbe per contraddire il postulato attorno al quale ruota il lungo film di Dominik: Marilyn è un meraviglioso, grosso equivoco; una donna fragile schiava dello show business, facilmente strumentalizzabile e scopabile, diventata un mito per caso, esclusivamente perché bella e disponibile; e poco importa se ciò comporti implicitamente dare dei coglioni a registi del calibro di Billy Wilder, Howard Hawks, Joseph L. Mankiewicz o John Huston, i quali, secondo questa prospettiva, avrebbero fatto lavorare nei loro film una nevrotica bambola gonfiabile, solo perché gonfiabile – e sgonfiabile – a seconda dei propri appetiti.
Blonde è un film pretestuoso, semplicistico, banale, manicheo, che deficita sciaguratamente nella ricerca di quella complessità e contraddittorietà che è caratteristica peculiare di ogni animo umano; a tratti è persino offensivo, perché mostra una donna irrealisticamente assuefatta allo sfruttamento, cui è negata ogni capacità di sofferenza vera e di ribellione, se si esclude naturalmente l’isteria, nel più deprecabile dei cliché psicanalitici e maschilisti, così da escludere ogni possibilità che il dolore e la malattia possano trovare una loro nobilitazione sul piano creativo e artistico. Blonde è inoltre volgare, perché diretto in modo impersonale da un regista che gioca a fare il Lars von Trier senza possederne il laido estetismo, senza disporre della medesima visione del mondo e della sessualità, senza avere il coraggio di far vedere per davvero un pompino. Ma Blonde è in primo luogo un prodotto contraffatto, non tanto perché collega episodi della vita di una persona tra loro scollegati, omettendone altri al solo scopo di confermare la conclusione di partenza, – quanto perché usa un linguaggio a sua volta morbosamente ancorato alla corporeità – alcune scene di nudo, per dirne una, sono del tutto superflue – sfruttandola nel modo più patinato e autoreferenziale possibile nel momento stesso in cui pretende di disapprovarla. La strepitosa somiglianza tra Ana de Armas e Marilyn non è che la conferma più evidente di questo corto circuito mimetico che rende Blonde soltanto un’ordinaria imitazione del mito: un’imitazione che non emoziona, e che, quando la storia finisce, ci impedisce persino di provare quella sana pietà che meriterebbe ogni essere umano che muore in solitudine e sconforto, Marilyn compresa.
Manuel Farina
Blonde
Regia e sceneggiatura: Andrew Dominik. Fotografia: Chayse Irvin. Musica: Nick Cave, Warren Ellis. Montaggio: Adam Robinson, Jennifer Lame. Scenografia: Erin Fite. Interpreti: Ana de Armas, Adrien Brody, Bobby Cannavale, Julianne Nicholson. Origine: USA, 2022. Durata: 167’.