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Bienvenido Mr. Luis

100 anni di Berlanga

Che il cinema di Luis Garcìa Berlanga sia poco conosciuto in Italia è indubbio. Si suppone che rientri in quella sfera chiamata normalmente “di nicchia” o, per usare un termine diverso e dal retrogusto classista, “ricercato” (è da notare che quest’ultima parola rende bene la necessità di sporcarsi le mani per riuscire a trovare quei prodotti di cui si è in pochi a essere estimatori). Nel momento in cui si dovesse accennare il cognome di questo regista è probabile che a riconoscerlo si sia in un numero così ristretto da creare imbarazzo. Un cognome che non aiuta neppure a catalogarne velocemente la provenienza per togliersi dall’impiccio di dover rendere nota l’incapacità di posizionarlo sulla mappa attuale delle etnie. Un Truffaut, ad esempio, evoca subito la Francia, così da avere una minima ancora di salvezza, mentre Berlanga si discosta troppo dai Garcìa (o dai Gonzalez) per essere riconosciuto come iberico.
Ci sarebbe allora da chiedersi, vista la sua oscurità, se Berlanga sia effettivamente importante nel corso di quello che viene definito il mondo (la storia) del cinema internazionale. Ci si deve accontentare di una risposta diversa da quella che si vorrebbe, un sì e no che tiene conto più della conformazione specifica del cinema mondiale che della supposta unitarietà programmatica. Berlanga è importante per il contesto storico in cui si è trovato a operare, così come è importante per il suo modo di fare cinema (la satira che sfocia nel grottesco, come può essere lo scoprirsi subito filoamericani in Benvenuto, Mister Marshall!, del 1952), ma è proprio il mondo in cui si trova a operare che non gli permette oggi (né, forse, gli ha permesso a suo tempo) di entrare a far parte della storia del cinema mondiale. Se lo si conosce, torniamo a ripetere, è per una questione di nicchia.

Cento anni dalla nascita di Berlanga segnano però un momento storico preciso, indefinibile, forse, fino a che non si passerà ai 150, ai 200 o ai 250 anni (siamo legati in modo indissolubile ai numeri dieci e cinque, declinati nelle varie moltiplicazioni, un risultato inaspettato, questo, della combinazione delle nostre dita con la nostra capacità cognitiva matematica… siamo, in fondo, sempre schiavi dei numeri e della loro magia fittizia). Berlanga era, è e sarà un punto di riferimento della cinematografia spagnola, sconosciuta spesso ai più, legata al massimo a qualche episodio almodovariano e a uno scambio non voluto con le produzioni sudamericane (in fondo, ci sembra di sentir dire, parlano tutti la stessa lingua, quindi perché non metterli in un unico contenitore?).
Se di contesto parliamo, di questo contesto dobbiamo creare una veloce analisi (di spazio ne abbiamo poco) che ci renda allora conto del perché Berlanga sia così poco conosciuto eppure così importante. Quella Spagna che usciva dalla guerra civile, quella Spagna di una dittatura che dopo essersi vista circondata da stati amici (quindi razzisti, misogini, omofobi e pateticamente legati a ideologie che si basavano sulla pseudoscienza) si ritrovava a essere un residuo archeologico in via di estinzione, è stata anche la cornice dentro la quale Berlanga doveva muoversi. Sfruttava, così, il regista il mondo che gli veniva proposto, un mondo orribile, chiuso, per nulla moderno (parola, questa, che forse dobbiamo tornare ad amare), quello stesso mondo che descriveva ne La ballata del boia (mal vista dai franchisti e incompresa dagli anarchici).

C’era da fare i conti con la censura. C’era da fare i conti, per usare altre parole, con il fatto che certe cose si potevano dire e altre invece, anche se conformi con la realtà, andavano taciute. C’era, prendendo un punto di vista differente, la possibilità di ridere di talune cose ma non di altre, anche se, gli occhi puntati sulla Spagna, il mondo libero o il mondo sovietico storcevano il naso quando si capitava per caso con lo sguardo sulla capitale di quella penisola abitata da persone che si avvicinavano allo stato di morti di fame (si ringrazia il signor Marshall per il cibo offerto). E, in questo, Berlanga trovava la capacità di ridere delle brutture e delle storture, mettendo a nudo un re che re non era (infatti era un dittatore, per quanto preferisse la parola “generale”), se non per via indiretta.
Rimane così necessaria la visione di Berlanga a qualsiasi tappa dell’età dell’uomo (e della donna) in cui si senta la necessità di portare scompiglio in ciò che di suo è moralmente e intellettualmente sbagliato, quella abilità di mettere a fuoco le storture senza però indicarle direttamente e, facendolo, porre in essere una disamina della situazione storica (visione selettiva) e dell’animo umano (visione globale). Ci sarebbe da rimanere depressi, se volessimo usare una parole così abusata, dal dipinto che Berlanga fa dell’essere umano; si ride, sì, ma lo si fa per non piangere. L’uomo, creatura di carne, ossa e atomi, viene perciò presentata come un piccolo verme che si crede padrone di un universo che gli è indifferente, e in questo scorcio grottesco si risalta il problema più grande che minaccia l‘umanità: il conformismo, figlio questo di un difetto tipicamente antropologico definito con il nome di idiozia, un difetto che merita solo una punizione, il riverbero di una risata amara.

Guido Negretti

Filmografia essenziale

Benvenuto Mr. Marshall! (1952)
Calabuig (1956)
La ballata del boia (1963)
La escopeta nacinal (1978, in spagnolo)
La vaquilla (1985, in spagnolo)

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