Dopo l’apertura piuttosto convenzionale, a dispetto della materia, con Django, la 67° Berlinale è proseguita con un concorso senza grandi picchi, ma con qualche buon film., aspettando l’arrivo di Aki Kaurismaki con il suo The Other Side Of Hope, il film più atteso della competizione. Il film di Etienne Comar racconta il grande chitarrista e compositore Django Reinhardt tra il 1943 e il ’45. L’idolo delle folle parigine, l’ultimo rimasto della grande stagione del jazz prebellico dopo la fuga degli americani, si esibisce barcamenandosi tra i limiti stretti (niente ritmi sincopati o musiche nere che possono indurre “degrado morale”) dettati dagli occupanti nazisti. Quando lo vorrebbero mandare in tour in Germania, lascia Parigi di nascosto, accampandosi a Thonon-les-bains, sul lago di Ginevra, con altri zingari. Da una parte i nazisti bruciano i campi, dall’altra non vogliono che Django suoni. Intanto il musicista cerca di passare in Svizzera e la resistenza si organizza sempre più. Se Reda Kateb è intenso e credibile nel ruolo del protagonista, tutto è un po’ prevedibile e ordinario, per quanto corretto, la rappresentazione dei nazisti un po’ cliché, compresa la scena madre del concerto di Django, ideato per distrarre gli ufficiali mentre un gruppo di persone scappa sul lago. Una sufficienza che però non è abbastanza per un tale personaggio, per la prima volta portato sullo schermo dopo le brevi “apparizioni” in Accordi & Disaccordi di Woody Allen e Hugo Cabret di Martin Scorsese.
La prima bella notizia del concorso è stato il ritorno, 18 anni dopo Simon Magus, della regista ungherese Enyedi Ildiko, che aveva esordito con Il mio XX secolo e si era fatta apprezzare con un pugno di film negli anni ’90. On Body and Soul è una storia di solitudini che si incontrano in un grande macello. Un dirigente e un’addetta al controllo qualità assunta per una sostituzione a tempo scoprono di fare lo stesso sogno, di essere due cervi nella foresta che vagano insieme, bevono allo stagno o si annusano. Di giorno però sono distanti, mentre intorno a loro si sviluppano altre dinamiche del lavoro. Tocchi di umorismo, delicatezza, solitudini trattate con sensibilità ma senza prendersi del tutto sul serio e la canzone What He Wrote di Laura Marling che segna la parte finale.
Film di contrasti su vita e morte, intenso e mai stereotipato, pur in un apparente squilibrio è Félicité di Alain Gomis. La storia di Félicité, cantante congolese che la sera si esibisce nei locali di Kinshasa. Da bambina l’avevano creduta morta e si era ripresa quando era già nella bara e le avevano cambiato nome. Il regista senegalese di L’affrance ne mostra la determinazione e l’energia pedinandola mentre cerca in tutti i modi di pagare le spese per un intervento chirurgico al figlio Samo. Il film pare diviso in due, la prima parte più tesa e sociale, la seconda più distesa e quotidiana; Gomis riesce a far sentire la vita della città, fa muovere lo spettatore a fianco della protagonista anche in una bella sequenza in motocicletta.
Il giapponese Mr. Long di Sabu mostra uno dei coltelli più infallibili del cinema. Un sicario scappato a Tokyo da Taiwan si nasconde tra baracche abbandonate, incontra un bambino provvidenziale e rivela di essere cuoco eccellente, ma i criminali lo cercheranno per vendicarsi. Una pellicola che inizia come Le iene, prosegue alla L’estate di Kikujiro di Takeshi Kitano, si sposta verso le atmosfere e le attenzioni del connazionale Hirokazu Kore-Eda e torna a Kitano.
Parte molto bene per poi perdersi un po’ in troppi spunti, non del tutto sfruttati, Wild Mouse – Wilde Maus, opera prima dell’attore austriaco Josef Hader (visto l’estate scorsa a Locarno in Stefan Zweig: Farewell to Europe) e anche interprete principale. Il critico musicale di un quotidiano è licenziato dall’oggi al domani per risparmiare, mentre sua moglie psicologa vuole a 43 anni un figlio a tutti i costi. Il protagonista non accetta la situazione, non la comunica a casa, cova rancore verso la sostituta impreparata e vendetta verso il manager che l’ha cacciato, mentre al Prater ritrova un compagno di scuola. Hader tiene insieme con una convincente prova d’attore e una buona caratterizzazione del personaggio una storia che rischia di sfuggirgli di mano e in alcuni passaggi fa ridere parecchio.
Divertente commedia equivoci molto classica, chiusa in un appartamento, con situazioni che si ribaltano in continuazione è The Party di Sally Potter. Sui titoli di testa Janet apre la porta con una pistola in mano. Parte poi il lungo flashback nel quale la donna festeggia con gli amici la nomina a ministro dopo una carriera politica dedicata agli ideali che le ha fatto perdere di vista altre cose. Mentre arrivano i pochi ospiti, il marito Bill (Timothy Spall) mette sul giradischi la musica che scandisce la serata. C’è chi è incinta e chi rivela di essere malato terminale, ci sono amori vecchi e nuovi, segreti e scoperte. Un film conciso, con ritmo, buona regia, bravi attori, con Patricia Clarkson su tutti, poi Bruno Ganz, Cillian Murphy e Cherry Jones.
da Berlino, Nicola Falcinella