La famiglia è il filo conduttore di questi due film che non possono essere più diversi. In Como Nossos Pais di Laís Bodanzky racconta la storia di Rosa, una donna di 38 anni che vive con la sua famiglia in un appartamento nel centro di San Paolo, il marito è spesso via per viaggi, quindi tocca a lei prendersi cura delle due figlie. Ha ambizioni da scrittrice ma è obbligata a guadagnarsi da vivere scrivendo per una società di ceramiche da bagno. I suoi genitori sono divorziati e a un certo punto la madre le dice che il suo vero padre è un’altra persona, Rosa decide così di rompere un po’ della monotonia della sua vita. Così facendo si scopre che la vita riserva molte sorprese. Laís Bodanzky è la regista, è una donna di un’età simile a quella della protagonista, ci ha messo dell’autobiografia per ritrarre questo personaggio che è allo stesso tempo madre, figlia, moglie e amante. È un film che ritrae la vita di tre generazioni che vivono in città più grande del Brasile, ma la protagonista assoluta è Rosa (una fantastica Maria Ribeiro) che cerca di bilanciarsi tra tutti i diversi ruoli. È perciò un film sulla ricerca di sé stessi e l’impatto profondo che questo può avere nelle sue normali relazioni familiari e lavorative. Passioni, menzogne ed egoismi trattati però senza melodramma, ma in maniera quasi naturalistica, nulla di nuovo ma è cinema ben fatto che si fa vedere.
Molto più interessante è Belinda di Marie Dumora. Presentato in Panorama Dokumenta, è stato descritto dal festival come una sorta di Boyhood documentario: per certi versi lo è, ma per altri è molto di più. Siamo nella periferia di Moulhous, Alsazia, la regista segue Belinda e la sua vita precaria dall’età di nove anni. Nel film ci sono quattro fasi della vita della ragazza, a 9 anni quando il suo tutore legale la separa dalla sorella, a 15 quando sogna una vita migliore e invece inizia a capire che non avrà speranza: la famiglia è già devastata, la sorella ha già un figlio e lei può solo immaginarsi un futuro migliore, magari lavorando come commessa in un negozio di scarpe quando invece lavora come meccanico. Poi la riprendiamo a 23 anni coi solchi dell’età già sul suo corpo, ora decide di sposarsi ma il suo ragazzo è in prigione, lei gli manda lettere d’amore e lo attende per il suo rilascio. La regista pedina la ragazza senza mai intervenire, all’inizio l’immagine è un 4:3 digitale che poi diventa un 16:9, la tecnologia in venti anni progredisce mentre la vita della ragazza sembra avere un destino già segnato fin da piccola. Il film vuole dirci che quando nasci in quei posti non c’è speranza alcuna? Forse si, ma la Dumora è brava a filmare la ragazza senza tocchi poetici, seguendola nella dura realtà borderline in cui vive, senza voyeurismi e senza retorica e senza guizzi da cinema d’autore. Un film duro ma toccante, scritto dalla vita reale.
da Berlino, Claudio Casazza