Un altro Orso d’Oro cinese e quattro premi all’estremo Oriente nel 64° Festival di Berlino. Un palmares che lascia molti sorpresi e con l’amaro in bocca. Il grande favorito, il preferito di gran parte dei festivalieri, Boyhood, vetta del cinema di Richard Linklater, ha ottenuto solo l’Orso d’Argento per la Miglior Regia, mentre il premio maggiore è andato a Black Coal, Thin Ice di Diao Yinan. In un concorso di 20 titoli, la giuria che comprendeva anche gli attori Christoph Waltz e Greta Gerwig e il regista Michel Gondry ha diviso i riconoscimenti tra sette, per lo più scegliendo i migliori con poche dimenticanze importanti ma con una ripartizione dei premi tra il cervellotico e il casuale. La pellicola cinese ha ricevuto anche il premio di miglior attore per Liao Fan, che interpreta ottimamente un poliziotto che pedina una donna legata a più uomini che nel corso degli anni sono stati uccisi. Un bel poliziesco, originale e suggestivo, ma il doppio Orso è eccessivo. Soprattutto l’oro, in presenza di un’opera così fuori dal comune come quella del texano, di cui si è raccontato in un precedente contributo (https://www.cinequanon.it/berlino-64-boyhood/). La giuria ne ha ignorato la portata complessiva.
Gli Stati Uniti hanno vinto anche l’Orso d’Argento Gran Premio della Giuria, assegnato a Wes Anderson per Grand Budapest Hotel, elegante e ironico racconto a incastri nella mitteleuropa tra il 1932 e il 1985. Il regista di Moonrise Kingdom e Fantastic Mister Fox era assente, ma nel messaggio di ringraziamento ha sottolineato “è il mio primo premio vero in un festival”.
Curioso, e indicativo di scelte bizzarre, l’assegnazione dell’Orso d’Argento Alfred Bauer per l’innovazione ad Alain Resnais per Aimer, boire et chanter, pure premio della critica Fipresci. L’Alfred Bauer, intitolato al fondatore del festival, va di solito a cineasti giovani o emergenti oppure opere particolari. Resnais, che ha quasi 92 anni, ha fatto la storia del cinema dagli splendidi corti d’arte degli anni ’50 a Hiroshima mon amour, L’anno scorso a Marienbad, Mon oncle d’Amerique e tanti altri. Aimer, boire et chanter è un altro bel film che fa felice chi ama il cinema metateatrale, stilizzato, ironico, zeppo di riferimenti, recitato benissimo (André Dussolier, Sabine Azema e molti altri) ma anche stilisticamente simile ai suoi precedenti per essere considerato innovativo.
Il premio per l’attrice è andato ad Haru Kuroki, coprotagonista del giapponese The Little House di Koji Yamada, un melodramma vecchio stampo che avrebbe meritato anche di più. Anche Kreuzweg – Via crucis del tedesco Dietrich Brüggeman poteva ambire a più dell’Orso per la sceneggiatura assegnato al regista (“è incoraggiamento per andare avanti, l’orso guarda al futuro”) insieme alla sorella Anna. Il film racconta di una ragazza, appartenente a una famiglia cattolica che aderisce a una Società di San Paolo ricalcata sul modello dei lefevriani, che si avvicina alla cresima (ha vinto anche il premio della giuria ecumenica). Un debutto che ha rappresentato una delle poche sorprese del concorso, insieme al potente film di guerra inglese ’71 di Yann Demange, senza premi per un’imperdonabile dimenticanza della giuria.
Il tocco orientale è stato completato dal premio per il contributo artistico a Zeng Jian, direttore fotografia Blind Massage di Lou Ye. Un film non brutto ma abbastanza modesto, di certo il meno interessante tra i premiati. Le critiche sul palmares non fanno che aggiungersi a quelle dei giorni scorsi sulla selezione del concorso, abbastanza diviso in due tra film buoni (oltre a quelli nominati la commedia nera In Order Of Disappareance del norvegese Hans Petter Moland e il greco Stratos di Yannis Economides) e altri tra l’inutile e lo scadente, con punta più bassa in Aloft di Claudia Llosa con Jennifer Connelly, Cillian Murphy e Mélanie Laurent.
L’unica italiana sul palco della premiazione è stata Valeria Golino, giurata che ha annunciato il premio per la miglior opera al messicano Gueros di Alonso Ruizpalacios che era nella sezione Panorama. Tra i film presentati nelle sezioni collaterali, hanno ottenuto diversi riconoscimenti l’etiope Difret di Zeresenay Berhane Mehari, il brasiliano Hoje eu quero voltar sozinho – The Way He Looks di Daniel Ribeiro, The Great Museum di Johannes Holzhausen (premio Caligari). Il bel documentario egiziano Al midan – The Square di Jehane Noujaim, sull’evoluzione della situazione politica in Egitto dalle manifestazioni contro Mubarak a oggi viste attraverso le proteste in piazza Tahrir, ha avuto il premio Amnesty ed è in uscita italiana in questi giorni con una serie di proiezioni evento.
da Berlino, Nicola Falcinella