Il cinema come la vita, la vita al cinema come raramente la si è vista. Un romanzo di formazione, una storia di crescita di rara ispirazione e tenerezza. È Boyhood di Richard Linklater che, dopo aver stupito al Sundance, ha commosso il Festival di Berlino ed è il candidato naturale al 64° Orso d’Oro. La storia di Mason dai 5 al 18 anni, in un film di finzione realizzato a pezzi nel corso degli anni con gli stessi attori, seguendo insieme la crescita dei personaggi e degli interpreti, confondendola e utilizzandola come strumento che dà forza e verità al racconto. Il regista texano si conferma con quest’opera, se ancora ne aveva bisogno, tra i grandissimi del cinema americano contemporaneo, il più sinceramente sentimentale, uno dei pochi ad avere il capolavoro nella manica e capace di una delicatezza unica e di un romanticismo privo di stucchevolezze. Boyhood è il film di una vita e il film della vita, un capolavoro che vale una carriera, destinato a entrare subito nel novero dei classici. Come e più della trilogia Prima dell’alba, Prima del tramonto e Before Midnight, Linklater si mostra in grado di cogliere (o ricreare, che è lo stesso) l’attimo, il momento che non si ripete, quello in cui accadono le cose cruciali. Il texano è un cineasta delle piccole cose, dei discorsi quotidiani, dei gesti che possono passare inosservati, ma li riempie di senso. Pur con una durata di due ore e tre quarti, tutto è essenziale, tutto indispensabile, le scene sono spesso brevi, ma bastano a dire molto. In una sola breve scena, allo stesso tempo semplice e magica, riesce a rendere un passaggio della crescita, come il flirt preadolescenziale tra il protagonista e una coetanea in bicicletta all’uscita da scuola.
Le ragazze sono, diventano, uno degli interessi principali di Mason, tanto che Boyhood è anche una storia di avvicinamento all’altro sesso (partendo dal rapporto stretto con la madre) e all’amore. Da bambino sfoglia e commenta una rivista di modelle con un amichetto. Cresciuto, millanta con esperienze che non ha, prima di arrivare ai primi veri approcci. Ma naturalmente i temi sono tanti, uno dentro l’altro.
Si parte quando la madre Olivia (Patricia Arquette), ricercatrice universitaria, e il padre Mason senior (Ethan Hawke perfetto come sempre), musicista e di poca fortuna e dai lavori saltuari, si separano. I bambini Mason (Ellar Coltrane) e Samantha (Lorelei Linklater) seguono la madre a Huston dove intende riprendere l’insegnamento.
Da piccoli i due vivono quasi sempre insieme e sono di fatto coprotagonisti del film, crescendo restano molto affiatati, ma il regista sceglie di seguire il ragazzo nei suoi spostamenti, nelle sue attività, nelle sue decisioni e nei suoi dilemmi. Nonostante la distanza, Mason senior resta presente e regolarmente torna a trovare i figli: le gite con il padre, l’incontro di baseball, sono momenti attesi e importanti, esempi di una poetica del cazzeggio quotidiano, non quello che strizza l’occhio o che va sopra le righe, ma quello che sembra che riempia degli spazi vuoti e invece dà respiro alla vita.
Nel frattempo Olivia ha delle relazioni con altri uomini, che si legano a lei e ai ragazzi, ma che diventano man mano prepotenti e alcolizzati e la costringono ad allontanarsi e ricominciare. Tanti traslochi, nuovi inizi. La madre è in apparenza poco presente, risulta meno divertente del papà, però c’è sempre: con un sorriso, un gesto, una capacità di ribellarsi (di prendere le sue cose per sfuggire alle prepotenze maschili) e di decidere per il bene suo e dei figli. Olivia si lascia andare alla tristezza solo verso la fine, quando il trasloco non è il suo: è il momento in cui Mason parte per il college e la donna all’improvviso si sente come se avesse bruciato le tappe e le mancasse “solo il funerale”.
Il padre è antibushiano convinto e in seguito sostenitore di Obama (la scena di Mason e Samantha che posizionano i cartelli pro Obama – Biden nel vicinato è tra le più belle). Ci sono anche le contraddizioni del Texas, con il nonno paterno che regala a Mason un fucile per i 15 anni (il regalo della nonna è una Bibbia) e lo porta nei prati a imparare a sparare. O le speranze dei figli separati quando si illudono che i genitori possano tornare insieme: la tenerezza con la quale Mason e Samantha guardano dalla finestra (e sono guardati dalla macchina da presa) i genitori che parlano, sembra si avvicinino e poi si riallontanino. La vita tra illusioni e delusioni, cambiamenti e dolori, risate e speranze. C’è tutto in Boyhood, senza nulla di troppo.
E’ un processo di crescita così realistico, così veritiero, che non è possibile non immedesimarsi e non aderire completamente ai modi del racconto, che ha nel tempo e nel tempo del montaggio la sua caratteristica peculiare. Ogni inquadratura è giustapposta alla successiva, non ci sono o quasi dissolvenze, non ci sono stacchi, è un unico flusso vitale, dove i passaggi di tempo sono segnati dalla crescita dei personaggi o dal cambio di automobile o da furtive indicazioni dell’anno in cui ci si trova. È come se il regista continuasse a utilizzare, o a simulare, l’unità di tempo così presente nei suoi film.
La speranza è che, come per la serie dei “Before”, Linklater continui nei prossimi anni a seguire le storie di questi personaggi creando una sua “Heimat” sentimentale, esistenziale e delle relazioni familiari e amorose.
da Berlino, Nicola Falcinella