Dopo la deludente apertura con Das Licht – The Light di Tom Tykwer, la 75° Berlinale è entrata nel vivo con i primi titoli del concorso per l’Orso d’oro. Das Licht è un infinito (2 ore 40 di durata) pasticcio di stili che vorrebbe mostrare la crisi, l’impotenza e il senso di colpa della società europea davanti al mondo odierno. Una famiglia tedesca – madre Milena che lavora nella cooperazione internazionale e cerca di finanziare un teatro di quartiere in Kenya e il disoccupato Tim, con due figli gemelli diciottenni, uno chiuso nella sua stanza dove gioca con la realtà virtuale e l’altra che pensa solo a ballare – assume una donna siriana per fare le pulizie. Scopriranno la sua storia terribile e la sua capacità quasi magica di fare sedute con le lampade, da cui la “Luce” del titolo. Intanto i coniugi affrontano una terapia di coppia per superare un periodo di difficoltà. Il film non manca di qualche suggestione o momenti belli, ma i i piani narrativi intrecciati, i frammenti di animazione, la virtualità, le parentesi da musical, i flash-back africani, lo rendono un calderone nel quale è difficile districarsi e facile perdersi. In più Tykwer, come ne Il profumo, punta molto sui simbolismi e sulla scena madre dell’acqua, che dovrebbe essere rivelatrice ed è semplicemente esagerata. Peccato per un regista discontinuo, che si era rivelato con Lola corre e in carriera ha avuto solo alcuni momenti (come Drei – 3) davvero convincenti.
Modesto pure Hot Milk, opera prima della britannica Rebecca Lenkiewicz, nota come drammaturga e sceneggiatrice (Ida, Colette e She Said), che ha adattato il romanzo di Deborah Levy. La giovane Sofia e la madre Rose, in sedia a rotelle, vivono in una casa sul mare nei dintorni di Almeria. La seconda è un’ex bibliotecaria d’origine irlandese, trasferitasi per studiare a Londra, dove si era sposata con un greco che poi l’aveva lasciata per tornare ad Atene. La giovane studia antropologia, accudisce la madre e la accompagna nella clinica del dottor Gomez che cerca una terapia adatta per farla tornare a camminare. Nelle attese Sofia fa il bagno in mare venendo irritata dal contatto con una medusa e incontra la berlinese Ingrid (Vicky Krieps), con la quale avrà relazione prevedibile già al primo sguardo. Una storia esile e scontata (compreso il trauma nel passato della madre), che resta in superficie anche a livello di immagini. Fino all’epilogo brutale, spiazzante e immotivato.
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Molto meglio il cinese Living The Land di Hou Meng, storia corale di campagna vista dal ragazzino Chuang. Siamo nel maggio 1991 e in piccolo vive in un villaggio all’interno di una famiglia allargata, anche se non capisce perché il suo cognome sia diverso. Nel ritmo del lavoro dei campi di inserisce la morte di una vecchia zia: prima del funerale, in mezzo ai campi di grano, c’è da dissotterrare le spoglie di suo marito per seppellirli insieme. Intanto i genitori di Chuang si trasferiscono per lavorare a Shenzhen, lasciandolo a scuola. Il film segue le lezioni, i giochi dei ragazzi, il lavoro nei campi, la mietitura e trebbiatura del grano, la castrazione del maiale, la raccolta del cotone, l’aratura, la vita del villaggio; i ritmi lenti e antichi della vita, sebbene il ritmo del film non sia lento. Hou Meng ha uno sguardo un po’ malinconico sulla perdita del mondo rurale, mentre si avvia la meccanizzazione dell’agricoltura, si compiono ispezioni alla ricerca di petrolio e i contadini sono allettati dalle voci dei guadagni in città, abbandonando la campagna. Un racconto in belle immagini che comprende tanti personaggi, senza che qualcuno sia al centro, giacché la storia non è tanto sui singoli, ma sul villaggio e il rapporto con la terra.
da Berlino, Nicola Falcinella