Questo è uno di quei film per cui vale la pena seguire i festival di cinema, presentato nella sezione Encounters è indubbiamente uno dei film più radicali di questa Berlinale ed è anche quello che pone più questioni anche sul cinema.
La pluripremiata scrittrice francese Christine Angot parte per un viaggio a Strasburgo, deve presentare un suo nuovo romanzo ma la città le evoca molti ricordi, è la città dove è cresciuta e dove suo padre visse prima di morire diversi anni fa. È la città in cui il padre ha abusato sessualmente di lei da quando aveva 13 anni.
Oggi, quarant’anni più tardi, torna in questa città e va a far visita alla moglie del padre che vive ancora lì con i suoi figli. Lei entra letteralmente in casa accompagnata dalla telecamera, la donna si era negata per venticinque anni, non aveva mai voluto incontrarla. Telecamere alla mano la registra/scrittrice forza la situazione e inizia una discussione dolorosissima. Quella che vediamo è una sequenza inaudita di una ventina di minuti, uno scambio pieno di tensione in cui viene messo sul tavolo il problema principale: perché il silenzio dopo aver scoperto l’impensabile? Come vedremo avanti nel film è un incontro che ha portato alla denuncia della regista da parte della donna per violazione di domicilio.
Christine Angot ritorna perciò sullo stupro commesso da suo padre, l’evento era stato raccontato nel suo romanzo più famoso, Incesto, ma nel film sposta il discorso oltre a quello che lei ha sofferto: l’incesto è sicuramente al centro del film, ma questa volta la questione non è tanto documentare come lei convive con esso, quanto chiedere agli altri l’effetto che ha avuto su di loro.Nel film compaiono la moglie del padre, sua madre, il suo ex compagno, sua figlia. Il centro di questo nuovo discorso è la famiglia, i molti silenzi e le molte mancanze. La domanda ha il potenziale per essere esplosiva, e questo documentario è altrettanto esplosivo e sconcertante.
“Non voglio la tua pietà; è confortante, ma non mi aiuta. Il tuo dolore deriva da un senso di disprezzo, di superiorità. Se avessi avuto un po’ di rispetto per me, ti saresti messa in contatto con me, non avresti provato dolore per le vittime dell’incesto in generale”. Così dice la Angot nel dialogo serratissimo all’inizio, chi ha letto i romanzi della scrittrice francese conosce la sua intransigenza sulle parole, in questo film spinge ancora oltre la sua ricerca sull’accuratezza, cerca negli altri delle specifiche parole. Sceglie la telecamera come nuovo strumento narrativo per forzare queste parole, vuole sentirle dire dagli altri. Utilizza il cinema come una sorta di prova definitiva, un archivio inconfutabile. Quelle che filma sono immagini violente e reali prese dalla vita, molto diversedalle sue consuete immagini mentali della letteratura.
Quello che la Angot ha subito è terribilmente doloroso, ha ovviamente lasciato segni brucianti a distanza di anni. L’autrice ci ha scritto sopra diverse volte, ma ora ha bisogno di altro. La telecamera, il cinema, la porta a ricevere alcune parole di cui ha bisogno. E lo fa con un obiettivo preciso senza raccontare troppo, non sappiamo se le violenze del padre abbiano portato a denunce, non sappiamo esattamente per quanto tempo sono avvenute. Non sono importanti questi dettagli, alla Angot interessano le parole della sua famiglia, e raggiunge questo obiettivo forzando la mano. Con la madre è crudele nel cercare le parole giuste, le fa scrivere su un quaderno i suoi pensieri per poi leggerli davanti alla telecamera. Più o meno lo stesso esercizio lo compie con l’ex marito, sempre in modo brutale e complesso gli fa ammettere una colpa su un episodio successo anni prima. Solo nel dialogo con la figlia sembra appagata, e infatti così finisce il film quando la ragazza le dice una cosa che la fa riflettere. E il mare davanti a loro sembra forse tranquillizzarla.
Une famille è un film sul riposizionamento dello sguardo, su quello che non si è visto o si è fatto finta di non vedere. È un documentario molto interessante e in parte problematico, non è un film su cui si deve emettere un giudizio, ma che sicuramente apre un dibattito importante, ci auguriamo perciò che molti festival italiani abbiano il coraggio di mostrarlo. Une famille ha indubbiamente il merito di portare alla luce i segni brucianti nelle vite di chi subisce crimini così spaventosi e, soprattutto, permette di interrogare una società che ha la tendenza a distogliere lo sguardo.
da Berlino, Claudio Casazza