“Siete impazziti? È troppo”. Così sul palco della Berlinale si è espresso il regista francese Nicolas Philibert ritirando l’inaspettato Orso d’oro per il suo documentario Sur l’Adamant.
Una 73° edizione del festival difficile da decifrare si è conclusa con l’Orso d’oro a sorpresa che consacra un grande regista. Tra i 19 titoli in concorso, la giuria presieduta dall’attrice americana Kristen Stewart ha premiato un’opera in generale apprezzata che non era inserita nella maggioranza dei pronostici.
L’Orso a Philibert, noto soprattutto per Nel paese dei sordi ed Essere e avere, è meritato e riconosce lo stile, che si rifà un po’ a Frederick Wiseman, di osservazione attenta e di partecipazione umana del cineasta. L’Adamant è un’imbarcazione ormeggiata sulla Senna che dal 2010 è sede di un centro diurno per persone con disturbi psichici di vario tipo a Parigi. Il regista filma le loro storie, seguendo soprattutto il filo l’organizzazione del decennale del cineforum settimanale organizzato dagli ospiti. È anche un film politico che mette in rilievo l’importanza sociale dei centri pubblici che accolgono questi malati e offrono loro possibilità di aggregazione e culturali oltre che di assistenza.
A Francia e Germania è andata la maggior parte dei riconoscimenti, otto in totale.
Il favorito spagnolo 20.000 Species Of Bees di Estibaliz Urresola Solaguren si è dovuto accontentare dell’Orso d’Argento per la migliore interpretazione da protagonista alla giovanissima e bravissima Sofia Ortero. Si potrebbe discutere sull’utilità di premiare un’attrice di soli nove anni, i dati di fatto sono due: non si è voluto dare un premio maggiore a un film magari non dirompente, delicato e attuale su tanti aspetti (e con tanti punti in comune con Alcarras – L’ultimo raccolto vincitore un anno fa); dall’altra la giuria ha scartato splendide prove come quella di Vicky Krieps nella parte di Ingeborg Bachmann diretta da Margareth Von Trotta perché non convinti da un film considerato troppo vecchio stile. 20.000 Species Of Bees è stato anche premiato dai lettori del Berliner Morgenpost.
Da qualche anno Berlino ha abolito i premi di miglior attrice e attore per superare la binarietà, istituendo quelli di miglior protagonista e miglior ruolo secondario. I premi 2023 vanno proprio in quella direzione: se Sofia Ortero interpreta un bambino incerto se essere maschio o femmina, la tedesca Thea Ehre, vincitrice dell’Orso d’argento per la migliore interpretazione di supporto, è un trans in Till the end of the night di Cristoph Hochhäusler. Il film in sé è modesto, indeciso tra essere un poliziesco e un melodramma e incapace di farli coesistere, ma l’attrice è brava nel ruolo di un trans appena uscito di prigione e seguito dalla polizia per arrivare a un trafficante di droga.
Molto meritato l’Orso d’argento per la miglior regia per Philippe Garrel, che l’ha dedicato a Jean-Luc Godard definendolo “il maestro di tutti noi”. Le grand chariot è un film familiare incentrato su un teatro di marionette vecchio stampo: i genitori di Garrel avevano un’attività di questo tipo e nel film dirige i figli Louis, Esther e Lena. È una toccante e sentita variazione sul tema sentimenti e arte, interrogandosi sul conservare o rinnovare, sul raccogliere l’eredità dei genitori o cercare una propria strada.
C’è anche un premio per l’unico film italiano in gara, in realtà una coproduzione con Francia e Belgio, Disco Boy dell’esordiente Giacomo Abbruzzese. Si tratta l’Orso d’argento per il miglior contributo artistico della direttrice della fotografia Hélène Louvart, che ha lavorato con tanti da Agnès Varda ad Alice Rohrwacher. Il lungometraggio, storia di un bielorusso che si arruola nella Legione straniera ed mandato in missione in Africa, uscirà in sala giovedì 9 marzo.
Restando all’Italia purtroppo senza premi, nella sezione competitiva collaterale Encounters, il bel documentario Le mura di Bergamo di Stefano Savona, rielaborazione collettiva della tragedia del Covid-19 in città e la ricostruzione di una comunità perduta.
Il verdetto complessivo della giuria è parzialmente inaspettato, ha delle sue logiche ed è per diverse cose condivisibile, contiene alcune buone intuizioni e un paio di svarioni che erano nell’aria. Su tutti l’Orso d’argento per la sceneggiatura a Music di Angela Schanelec, una regista che gioca in casa (è già stata premiata come miglior regista nel 2019) e per qualcuno sarebbe stata da Orso d’oro: nella realtà meriterebbe di vincere solo per la pretenziosità delle sue opere.
Poco condivisibile pure l’Orso d’argento premio della giuria al portoghese Mal viver di Joao Canijo (che curiosamente presentava in Encounters un film gemello intitolato Viver mal), rarefatta vicenda familiare tutta al femminile, molto statica e molto parlata all’insegna del vorrei ma non posso. Meglio, tra queste le familiari, il messicano Totem che evoca lo sterminio degli indigeni ed è stato premiato dalla giuria ecumenica.
Ci sta pure l’Orso d’argento Gran premio della giuria a un altro abbonato ai premi berlinesi, andati a ben tre dei cinque lungometraggi tedeschi in competizione, una rappresentanza fin troppo numerosa per il cinema di casa che non vince il premio maggiore dal 2004. Si tratta di Roten Himmel di Christian Petzold (Yella, La scelta di Barbara, Undine), opera dalla chiara matrice letteraria che ruota attorno a un aspirante scrittore, Leon, che non capisce il mondo circostante e cerca una svolta durante un soggiorno al mare.
Peccato che dai premi sia rimasta fuori l’Asia, che da parecchio tempo non presentava quattro concorrenti in un grande festival, incluso il coreano Past Lives di Celine Song, un triangolo amoroso al tempo dei social che è stato tra le belle sorprese del festival ma è rimasto a mani vuote nella serata finale.
Tra i premi non ufficiali del concorso quello della giuria Fipresci all’australiano The Survival of Kindness di Rolf De Heer un post apocalittico sulla memoria degli aborigeni e le discriminazioni che ancora subiscono. Un film che fa il paio con il connazionale Limbo di Ivan Sen, un western poliziesco con diversi motivi di interesse che è stato però ignorato da tutte le giurie.
Molto bello il vincitore di Encounters (una sezione che ha svolto bene il suo compito di ricerca e scoperta), il belga Here di Bas Devos, questo sì qualcosa di originale, che inizia in maniera molto rarefatta da un cantiere e dagli operai che ci lavorano per arrivare all’incontro tra un immigrato romeno e una studentessa cinese all’insegna dell’osservazione del muschio, suggerendo di prestare attenzione anche alle cose microscopiche. Un film che avrebbe decisamente ben figurato nel concorso principale.
Infine, Miglior regia a Tatiana Huezo per The Echo, vincitore anche del premio di miglior documentario tra tutte le sezioni.
da Berlino, Nicola Falcinella