Nella sezione Generation della 73^ Berlinale, lo spazio sempre più importante dedicato al cinema per ragazzi, è stato presentato Le proprietà dei metalli, lungometraggio d’esordio di Antonio Bigini.
Siamo a fine anni ‘70 tra le valli e i calanchi dell’Appennino emiliano. I bambini d’estate giocano nei prati, nei boschi o al fiume. Tra lor spicca Pietro, che ha la capacità di piegare oggetti metallici come chiavi o posate. La madre è morta da poco e il bambino vive con il fratello minore e compagno di giochi, il padre e la nonna materna, che ha spesso bisogno di aiuto. Tra i pochi programmi in televisione c’è Sandokan, che poi i ragazzini imitano come passatempo. La notizia che Pietro possiede doti insolite si è diffusa e un giorno compare un professore di Bologna che parla con accento americano e vuole osservarlo e studiarlo. Il bambino acconsente, mentre il padre è preso dai debiti e dai cattivi rapporti con un vicino, che fa sparire le galline (sulle prime incolpano le volpi) e poi danneggia l’autocarro. Le visite dello studioso si intensificano, finché mette al corrente la famiglia dell’esistenza di un concorso negli Usa che mette in palio 20.000 dollari (corrispondenti a 13 milioni di lire dell’epoca) per chi sa mostrare capacità fuori dal comune. L’idea alletta sia il padre sia il figlio, consapevole delle difficoltà paterne, che si mette a disposizione per l’esame.
Il film di Bigini è uno di quei casi di cui ci sarebbe più bisogno nel cinema italiano, opere prime scritte bene, produttivamente piccole ma ben strutturate: tra i pochi esempi recenti Amanda di Carolina Cavalli. Il regista e sceneggiatore riprende il casi dei cosiddetti “minigeller”, che prendevano il nome da quello dell’illusionista Uri Geller che era diventato familiare dopo la metà degli anni ‘70 per le sue apparizioni televisive. Alcuni, soprattutto bambini, mostrarono capacità strane e vennero studiati per capire l’origine dei misteri.
Bigini riesce a descrivere bene l’epoca e l’atmosfera in una campagna isolata sebbene non molto lontana dalla città, sa rendere la vita semplice, con pochi giochi e tante possibilità di inventare e gestirsi, dei bambini e dei ragazzini del tempo. La mancanza di qualsiasi elemento di tecnologia è fondamentale per alimentare il mistero. Ne esce un film sulle forze invisibili della fisica e delle persone, sui misteri di queste forze. Uno dei temi è il credere a ciò che non si vede, per questo Le proprietà dei metalli assume anche un significato spirituale, cose possibili in un mondo semplice che lasciava più spazio all’ignoto. Una pellicola semplice ma coesa, senza vezzi, essenziale, che sul realismo della situazione e della visione dei luoghi innesca elementi da thriller psicologico. Le proprietà dei metalli, che si avvale anche di una bella colonna sonora che usa flauti e marimbe per sottolineare i momenti critici o di sospensione, è anche un romanzo di formazione con un finale riuscito e, nel suo piccolo, sorprendente. Anche la relazione con il professore è insolita rispetto a quanto si vede frequentemente e quest’ultimo è raccontato soprattutto per l’ossessione per l’invisibile e per la scoperta e il suo fastidio verso l’accademia ufficiale.
Prodotto da Kiné con Rai Cinema e il contributo delle Film Commission di Emilia-Romagna e Toscana, il film non ha ancora una distribuzione italiana.
Ne abbiamo parlato a Berlino con il regista.
Antonio Bigini, come nasce questo film che recupera le vicende di alcuni studiosi di fine anni ‘70?
A.B.: Tutto è nato dal mio incontro con una persona che aveva lavorato in un centro di parapsicologia a Bologna. Mi parlò di un ricercatore che si era occupato di questi casi, il professor Bersani, che ho incontrato ed è stato gentile e ospitale, condividendo con me racconti, materiali e fotografie. Non ero ancora nato al tempo, sono del 1980, mi ha colpito come venivano messi i bambini per condurre gli studi, studiati un po’ come topi di laboratorio. Questa cosa è stato il motore della storia.
La maggior parte di quei bambini venivano da famiglie di livello sociale basso.
A.B.: Il professor Bersani ha condiviso con me anche uno studio psicologico e sociologico sui bambini coinvolti che denotava un tratto comune per la maggioranza di loro, la provenienza dalla campagna e l’appartenenza a famiglie umili con una disfunzionalità affettiva. Il film è liberamente ispirato a varie storie, non racconta una precisa storia vera.
Non fa mai vedere cosa succede in queste sedute di osservazione.
A.B.: È stata una scelta voluta non mostrare ciò che Pietro fa. Il film riguarda le forze invisibili che ci sono nella materia e nelle relazioni umane. Volevo interrogare, non fornire delle risposte, il film lascia al pubblico il compito di trovare risposte. A me interessava evidenziare la presenza di un mistero.
Ha saputo che fine abbiano fatto questi bambini “Minigeller”?
A.B.: Non ho potuto scoprire che fine abbiano fatto. Nella mia opinione, ma è solo la mia opinione, erano spinti da un desiderio di visibilità e anche di riscatto sociale.
L’ambientazione a fine anni ‘70, con l’assenza quasi di ogni tecnologia, è fondamentale. Oggi non sarebbe possibile, non esiste più quel mistero.
A.B.: Sì, è così. All’inizio ci siamo chiesti se attualizzare la storia, ma ci siamo subito resi conto che mantenere l’ambientazione era essenziale. Quei fatti si svolsero allora e non avrebbe senso oggi. È cambiata la società, questo era possibile solo nella civiltà contadina che allora era alla fine. Allora c’era poi molta attenzione per questi fenomeni, la sera sulla Rai c’erano spesso trasmissioni che ne parlavano, era lo spirito dei tempi.
Rispetto a film in qualche modo simili, colpisce che il professore, pur accorgendosi dei problemi di Pietro, non si sostituisce al padre, mantiene il suo ruolo di professore.
A.B.: Il professore può essere visto come un padre alternativo a quello vero, ha una sensibilità verso le capacità del bambino diversa da quella del padre. Ho definito il personaggio in modo positivo, senza ombre, solo con l’ambizione personale di riuscire a dimostrare qualcosa sul paranormale. Ma non ha ombre nel rapporto con il bambino.
da Berlino, Nicola Falcinella