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Berlinale 73: Il cinema tedesco gioca in casa

Il cinema tedesco è sempre un osservato speciale al Festival di Berlino. In questa 73^ edizione ancora più del consueto, essendo presenti ben cinque film casalinghi in competizione su 19, veramente una proporzione esagerata. È da ricordare che l’ultimo Orso d’oro tedesco fu nel 2004 con La sposa turca di Fatih Akin e stavolta il digiuno potrebbe interrompersi. Soprattutto è interessante osservare che su due dei film tedeschi si sono estremizzate le posizioni, tanto da renderli paradigmatici dello stato del cinema attuale e della sua percezione.

Da una parte c’è Ingeborg Bachmann – Reise in die Wüste (Ingeborg Bachmann – Journey into the Desert) di Margarethe von Trotta, una delle poche pellicole storiche e biografiche della competizione, bollato come vecchio e superato. Dall’altra c’è Music di Angela Schanelec, una delle esponenti di punta della cosiddetta Berliner Schule e già premiata come miglior regista alla Berlinale 2019 per I Was at Home, But…., considerata espressione di un non ben definito nuovo, anche se la Schanelec è sulla scena, con esiti altalenanti e mai del tutto convincenti, da ormai tre decenni. Von Trotta, classe 1942, e Schanelec, 1962, hanno vent’anni di differenza, non così tanti per essere considerate rispettivamente una bollita (nonostante si tratti di una delle ultime grandi maestre) e una rivelazione emergente.
Von Trotta fa il suo film senza bisogno di dimostrare nulla e questo è il più grave difetto nell’era degli insicuri arroganti che cercano di farsi spazio.

Come dice il titolo, è un ritratto della carinziana Bachmann, protagonista della vita culturale di lingua tedesca tra gli anni ‘50 e i ‘70, non tanto nel senso biografico, quanto nel cogliere un momento, la relazione con lo scrittore svizzero Max Frisch. Quello, per intendersi, che scrisse una frase lapidaria e ancora attuale sulla nostra percezione degli immigrati: “Volevamo braccia, sono arrivati uomini”. Dal punto di vista personale Frisch, conosciuto a una presentazione, non è certo privo di difetti, la convivenza tra i due andrà in frantumi, come se due scrittori non possano vivere insieme: allora si lavorava con le macchine per scrivere e il rumore insistenze disturbava lei. E se l’uomo era geloso delle relazioni e della libertà della compagna, Bachmann lo definiva un “vampiro”, accusandolo di copiare la loro vita nelle sue opere.
Von Trotta (memorabili Il caso Katharina Blum, Anni di piombo, Il lungo silenzio, fino al più recente Hannah Arendt) riesce a dire parecchio della scrittrice che visse a lungo a Roma (dove pure morì a soli 47 anni), una città che considerava “dalle braccia aperte”, ispirandosi alla forma del colonnato di S. Pietro del Bernini, contrapponendola al grigio di Berlino e di Vienna. Si fluttua su piani temporali diversi, senza perdersi mai e senza bisogno di spiegazioni. La regista allestisce una pellicola classica e non scontata, mettendo al centro il viaggio nel deserto, anche su suggestioni di Lawrence d’Arabia, che aveva immaginato con Frisch e che mise in pratica con Adolf Opel, conosciuto in seguito. Tra gli episodi da ricordare, gli incontri con Giuseppe Ungaretti che la scelse come traduttrice delle sue poesie. Da lodare l’interpretazione come sempre molto incisiva di Vicky Krieps (Il filo nascosto, Il corsetto dell’imperatrice) che però, ben diretta e circondata da un bel cast, non si mangia il resto e mette la sua bravura (è senza dubbio una delle migliori attrici europee) al servizio del progetto.

È vago e respingente, pretenzioso quanto i suoi precedenti, più criptico che ermetico, Music di Angela Schanelec. Si parte dagli anni ‘80 e si arriva, per salti ed ellissi temporali, ai nostri giorni: la collocazione più precisa è quella del 2006, per la semifinale Germania – Italia dei Mondiali di calcio. Nella sinossi si fa un riferimento al mito di Edipo che potrebbe essere una chiave se si ritrovasse qualche elemento, mentre sembra solo un adesivo intellettuale sopra il nulla. Del resto siamo in Grecia e la regista assorbe dai registi ellenici degli anni 2000 dei Lanthimos e così via, uno dei più vuoti movimenti del cinema recente, l’attaccare metafore posticce, o troppo facili o pretestuose su un discorso che si compiace di irritare e crede di essere provocatore. Non è che nello spingere lo spettatore a una lunga e un po’ inutile ricomposizione di pezzi della trama che non significano nulla e non portano ad altro, che il film può indurre riflessioni o altro. Negli anni ‘80 un uomo trasporta una donna su per una collina durante la tempesta. Arrivano automediche, mostrate per tutta l’ascensione, a recuperare un bambino abbandonato dentro un rudere e chiamato Jon da un paramedico. Cresciuto, Jon uccide casualmente un uomo ed è assistito da Iro, che sposerà una volta scarcerato e dalla quale avrà due figli. Jon diventerà cantante (controtenore) seguendo la lista di musiche (Monteverdi, Bach, Pergolesi e altri) che la donna di guardia gli aveva scritto su un biglietto e raccolto in un’audiocassetta. Con la musica si arriva a oggi e a un evento che capita a Berlino, proprio a Potsdamerplatz a pochi metri dalla sede del Festival. L’ennesima cosa solo suggerita, come i segreti che i protagonisti nascondono.

Roten Himmel di Christian Petzold

Molto meglio Roten Himmel di Christian Petzold, anch’egli riconducibile alla Berliner Schule di cui è il portabandiera più valido seppure non sempre convincente. Stavolta, pur seguendo la linea che le cose non sono come appaiono e le persone pure, Petzold non fa troppe stranezze e il suo film sembra, tra i tedeschi, quello con più possibilità di premio. Il giovane scrittore Leon e l’amico Felix arrivano alla casa al mare della famiglia del secondo. Il viaggio nasconde qualche inconveniente e stranezza che fa intuire qualcosa, mentre dalle foreste circostanti si avvicina un incendio pericoloso. I due dividono la casa con Nadja (Paula Beer), gelataia amante rumorosa del bagnino Devid: Leon ne è così infastidito da trascorrere le notti in giardino. Fino alla visita del suo editore, per discutere di un manoscritto, che farà venire a galla molte cose. L’ascendenza letteraria (si parla di Heine e Von Kleist) è evidente, qualche riferimento (come agli amanti di Pompei) è un po’ di troppo e suona più come una strizzatina d’occhio allo spettatore che un elemento necessario. Petzold esplora come nasce la scrittura, gli incroci tra arte e vita (con qualche svolta prevedibile), gli amori che si intersecano e soprattutto descrive la fatica di Leon nel capire gli altri e nel relazionarsi, un problema che si ripercuote sulla sua opera. Non sarà il suo capolavoro, ma Roten Himmel (il cielo rosso dato dagli incendi) è un buon film e l’uso ripetuto della canzone In My Mind dei Wallners gli dà una spinta.

da Berlino, Nicola Falcinella

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