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Berlinale 73: Au cimetière de la pellicule, alla ricerca del cinema africano

Presentato in Panorama Dokumente alla 73ma Berlinale, il film di esordio di Thierno Souleymane Diallo è una inquieta ricerca del punto di origine del cinema guineano, una lunga indagine della genesi di tutto il cinema africano nero.
Au cimetière de la pellicule parte dai ventitré minuti di Mouramani, leggendario primo film africano realizzato in Guinea nel 1953 da Mamadou Touré, il primo film realizzato nella storia da un regista francofono nero africano. Il regista guineano non l’ha mai visto poiché il film oggi è ritenuto perduto, tutti ne parlano e ne hanno ricordo ma nessuno l’ha visto. Nessuno sa come vederlo e nessuno sa dove trovarne una copia. Macchina da presa alla mano, Thierno Souleymane Diallo va alla ricerca di questo film misterioso e affascinante. Lungo il suo viaggio, cerca di scoprire cosa è successo ai cineasti, ai film e alle sale cinematografiche della sua nazione, un tempo pioniera del cinema africano. Diallo attraversa la Guinea da est a ovest, da nord a sud, rivolge la sua camera alla storia del suo paese e del cinema ovviamente.

Au cimetière de la pellicule è un lungo cammino solitario che, come dice il titolo, diventa presto un lungo viaggio intorno alla morte del cinema: scopriamo che dopo l’indipendenza il paese ha visto fiorire il cinema, sono stati realizzati molti film ma è diventato presto solo strumento di propaganda politica. Dopo il boom iniziale la spinta finì presto per esaurirsi e il cinema, sia come film realizzati che come luogo, iniziò a morire. Dopo il colpo di stato degli anni ’80 fu praticamente distrutto tutto quel che era stato realizzato prima.
Diallo viaggia poi dalla Guinea fino a Parigi, perché, si sa, i francesi ex dominatori del suo paese sono più bravi di loro nel conservare pezzi di storia. Vaga sempre a piedi nudi, è una scelta forte e simbolica, profondamente politica che dimostra la povertà di un paese come la Guinea che ora non ha nessuna volontà di spendere risorse nel cinema e non ha neanche la voglia di tenere traccia della propria Storia.
Il film è stato realizzato in sette anni di lavoro, non è un film arrabbiato né nostalgico, a tratti il regista africano sembra essere più che altro disilluso. Diallosi sente sicuramente tradito dalla sua nazione, ma realizzando questo lavoro ci restituisce un preciso punto di vista politico: esiste ancora una fiammella di speranza e ce la vuole trasmettere, il cinema è vita e lui sogna di restituirlo al suo paese.

da Berlino, Claudio Casazza

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