Come al solito i film più interessanti della Berlinale, anche in questa nuova versione, vengono da Forum,
due film che ragionano sugli archivi e sull’immagine in generale. Partiamo da Tipografic Majuscole del
regista rumeno Radu Jude: nel 1981, a Botoşani, vengono trovate delle scritte contro il regime di
Ceaușescu che chiedono libertà e fanno riferimenti agli sviluppi democratici che si stavano
verificando in Polonia e in altri paesi gemelli socialisti. Tali scritte, opera di Mugur Călinescu, un ragazzo di sedici anni che andava ancora a scuola, mossero fin da subito la polizia segreta rumena.
Radu Jude con Tipografic Majuscole realizza uno straordinario film che parte proprio dalla riscoperta degli archivi della polizia segreta e prende molti spunti dallo spettacolo teatrale della regista Gianina Cărbunariu. Ma la grandezza del film sta nell’andare oltre alla trasposizione dell’opera teatrale, infatti Jude utilizza anche moltissimi filmati d’archivio della televisione rumena dell’epoca. Questo pazzesco montaggio dialettico mescola un paese che vive uno stato di sorveglianza dittatoriale ma contemporaneamente è pervaso dall’intrattenimento popolare autorizzato dal regime. È un montaggio che alterna terrore ma che diverte con mille situazioni al limite del credibile: vediamo balletti, canzoni, delle ricette di cucina che si alternano agli interrogatori di polizia; le trascrizioni di telefonate intercettate miste all’arrivo dei frigoriferi con il congelatore; parate di regime ed eventi sportivi. Reperti straordinari che dialogano in modo potentissimo, ci fanno capire come la Romania si stava portando verso il superamento del regime. Anzi, il consumismo stava già arrivando con il consenso del regime. Sono archivi che creano momenti di sbalordimento, ma Jude è abilissimo nel restituirceli con estrema lucidità, ci racconta così quegli anni evitando le insidie della rievocazione e portandoli direttamente fino ad oggi con un ultima parte stupenda che rende ancora più interessante un film già di per sé straordinario.
Un altro film fondamentale per chi lavora con le immagini è The viewing booth di Ra’anan
Alexandrowicz, un film che esplora il modo in cui diamo significati alle immagini in base ai nostri
sistemi di credenze. Alexandrowicz è un regista israeliano, autore di The Law in These Parts (2011) e The
Inner Tour (2001), due film che raccontato diversi aspetti dell’occupazione israeliana in Palestina. In
questo film, tutto girato in uno studio di montaggio, incontra degli studenti americani e mostra loro alcuni video reperiti online che descrivono la dura realtà dell’esistenza palestinese sotto il dominio militare israeliano. Non si concentra sui filmati ma sulle reazioni degli studenti a cui chiede di commentare le immagini mentre le vedono. Unico nella sua forma e struttura, il film gira la sua macchina fotografica lontano dal mondo e va diretto verso gli occhi degli spettatori.
Alexandrowicz si concentra in modo particolare su Maia Levy, un’entusiasta sostenitrice di Israele che non crede alle immagini che vede, ride spesso e senza dubbi sostiene che si tratta di messe in scena. Sei mesi dopo, Alexandrowicz invita di nuovo la ragazza a guardare altri filmati. Questa volta, Maia guarda le riprese di se stessa mentre commentava le immagini dell’occupazione. È un film stratificato che ragiona su molti livelli e va oltre il conflitto israelo-palestinese. L’analisi riflessiva di Maia sui suoi precedente
commenti fornisce allo spettatore una dimostrazione sconcertante dell’idea che vedere non è sempre
credere. Un film fondamentale su cosa è la verità e la finzione, sulla dialettica tra spettatore e filmmaker,
su cosa cerca chi filma, sul vedere un lato di un problema e il suo lato oscuro. Un film sulla telecamera
che produce immagini e su come lo spettatore ne produce altre, sul pensiero e sul credere in qualcosa che
cambia la percezione delle immagini che vediamo.
da Berlino, Claudio Casazza