Oggi sono passati in Forum due film che potrebbero essere considerati uno l’opposto dell’altro: uno prova a essere realista e naturalista mentre l’altro gioca con lo straniamento e l’antinaturalismo, sono due storie radicalmente diverse, la prima è vera, mentre la seconda è completamente inventata ma sembra più vera della prima.
Iniziamo dal primo e diciamo che purtroppo è un grossa delusione, Gli ultimi a vederli vivere di Sara Summa, è una produzione tedesca con regia italiana, è basato su una storia di cronaca di qualche anno fa avvenuta nell’entroterra in Puglia. Il fatto viene rivelato già nei titoli di testa: la famiglia Durati verrà uccisa una sera d’estate. La regista italiana parte dal fatto già esposto e torna indietro con la narrazione mostrandoci l’ultimo giorno di vita della famiglia. Il film non nasconde il fatto che il padre Enzo, la madre Alice, la figlia Dora e il figlio Matteo non sopravviveranno il giorno successivo, la conoscenza della loro fine imminente cambia il modo in cui vediamo le loro azioni quotidiane, sia grandi che piccole.
La famiglia vive tranquilla appartata in mezzo alla campagna, circondata da uliveti, le loro attività non sono particolarmente spettacolari, ci sono i preparativi per un matrimonio, gli amori di una ragazza, il piccolo di famiglia che si diletta nel lavoro del padre. Il meccanismo è semplice, la fragilità della vita traspare nei piccoli gesti e sembra quasi che i protagonisti recitano quasi catatonici, in perenne rallentamento. La regista si concentra radicalmente sul “prima” e ci mostra anche gli eventi meno significativi da prospettive diverse, cercando di dare così un significato più grande. Il montaggio ci porta ogni tanto lungo la strada tra uliveti e bei paesaggi pugliesi e la musica ci accompagna verso una fine inevitabile come un conto alla rovescia. Il tentativo è un tenero racconto di vita molto più che di morte, siamo infatti noi spettatori “gli ultimi a vederli vivere”. L’idea è interessante ma tutta la costruzione pecca su uno script molto debole e le stesse ripetizioni dei piccoli eventi sono poco comprensibili e rischiano l’effetto della maniera, alla stessa misura di dialoghi poveri che vogliono invece dire troppo.
A portuguesa di Rita Azevedo Gomes è invece un grande film, girato con magnifici costumi ma visivamente poverissimo, è un adattamento del romanzo di Robert Musil The Portuguese Woman ed è ambientato nel Medioevo. Il film racconta di una giovane donna portoghese appena sposata a Lord Von Ketten, un nobile altoatesino, noi vediamo i due sposi attraverso il viaggio che fanno dal Portogallo per andare ad abitare nella nuova casa, un castello decadente incastonato tra le montagne vicino al passo del Brennero. Qui la giovane portoghese conosce la famiglia di suo marito, ma quasi subito Von Ketten deve partire in guerra per combattere contro un fantomatico Vescovo di Trento, un vescovo probabilmente mai esistito, esattamente come questa guerra. Ma i fatti sono secondari in questa storia, quello che conta è che la giovane sposa decide di rimanere nel castello-prigione e negli undici lunghi anni che seguiranno rimane lontano dal marito, quasi sempre in solitudine. La giovane portoghese perciò si ritaglia una vita per sé stessa: legge, canta, suona, balla, nuota e cavalca nella foresta. Adotta anche un giovane lupo a cui è più vicina che ai figli. Il film si muove in maniera magica all’interno della novella di Musil, tra l’altro la Azevedo aveva già attinto dalla pagina scritta anche nei film precedenti (da Zweig era tratto The Invisible Collection e A Woman’s Revenge era basato su una storia di Les Diaboliques di Jules Amedée Barbey d’Aurevilly). Il film è pieno di antinaturalismo, la recitazione è spesso teatrale e con momenti fuori contesto, come la figura di Ingrid Caven che con un moderno abito da sera nero entra nel film e tra i personaggi d’epoca si mette a cantare canzoni o recitare poesie. La Azevedo perciò decostruisce una storia, ce ne regala solo piccoli frammenti e ci mostra un film dove l’astrazione della forma è la vera sostanza.
da Berlino, Claudio Casazza