Iniziamo da una piacevole follia: Le Fils de Joseph di Eugene Green, un film bellissimo di un regista che da anni fa cinema a sé, è l’autore di Toutes les nuits e La sapienza. Americano trapiantato a Parigi è uno dei pochi ancora fedele della lezione della Nouvelle Vague.
Estate a Parigi, il 15enne Vincent è cresciuto con la madre single Marie, ora vuole sapere chi è suo padre. La sua indagine lo porta fino a un famoso e spocchioso editore. Quando incontra il fratello Giuseppe la sua vita cambia completamente. In un ambiente contemporaneo Green gira una storia biblica tra Abramo, Isacco e Maria e Giuseppe, colonna sonora con musica barocca italiana, fotografie di Doisneau, tre dipinti del 17° secolo e una forma artificiale di dialoghi e linguaggio che fa entrare il film in un’altra dimensione. Tutto con una messa in scena teatrale, personaggi sempre frontali alla telecamera, una composizione geometrica delle immagini e con dialoghi che sembrano declamazioni. Un film profondamente divertente, soprattutto nella presa in giro dei cocktail letterali con una Maria De Medeiros formidabile e un Mathieu Amalric piacevolmente antipatico. È cinema citazionista, teologicamente alieno, un film sorprendente, paradossalmente anacronistico e innovativo, pieno di tocchi geniali, quasi magici che possono far pensare a De Oliveira o a certo Bunuel.
Erano presenti anche due film con Gérard Depardieu protagonista: The End di Guillaume Nicloux e Saint Amour di Benoît Delépine, Gustave Kervern. Nel film di Nicloux, l’autore di L’enlèvement de Michel Houellebecq e La religiosa, l’ormai pachidermico attore francese è in scena dall’inizio alla fine: una mattina decide di andare a caccia in un bosco vicino casa con il suo amato cane, si perde e non trova più l’uscita. Depardieu vaga tra gli alberi spostando stancamente il suo fisico immenso, chiama il suo cane che si è dileguato, impreca e si dispera, dormirà in una grotta e in questa terra piena di mistero incontrerà strane creature. È un film che a tratti poteva sembrare interessante ma manca qualcosa nella parte centrale per acuire il mistero e renderlo più irreale, poi un doppio finale tutt’altro che necessario non convince proprio.
L’altro film con Depardieu era invece inserito fuori concorso: i registi belgi Delépine e Kervern sono gli autori dei bei Louise-Michel e Mammuth. Saint Amour è il nome di un beujoulais, infatti il film è ambientato nelle campagne francesi tra fiere agricole, concorsi di bellezza per vacche e degustazioni di vini. Bruno (Benoît Poelvoorde) è un quarantenne single che non riesce a dare un senso alla propria vita, troppo succube del padre (Depardieu) e non convinto del suo futuro nel mondo agricolo. La madre è appena morta e manca sia a padre che figlio, in questo ‘tour du vin’ i due si riavvicineranno grazie a incontri surreali: un tassista con un problema sessuale, una cameriera preoccupata per il debito nazionale e il rapporto debito/pil, un albergatore inquietante (Houellebecq), una venere bellissima con menopausa precoce (Céline Sallette). Ne esce un film molto divertente, forse quello che ha strappato più risate in tutta la Berlinale, che si perde però nei bozzetti che rappresenta e in un finale troppo buono e con poco senso, un film che sicuramente non aggiunge molto alla carriera dei due registi.
Per chiudere merita due parole The Illinois Parables di Deborah Stratman, film inserito in Forum Expanded: 11 parabole raccontano pezzi di storia dello stato americano del’Illinois: una regione pervasa da fede, tecnologia, violenza, messianismo e esodo. La Stratman parte dalla guerra contro gli indiani Cherokee, poi passa alla comunità utopica dei francesi icariani che si era stabilità nello stato americano, in un altro frammento tratta l’invenzione di un reattore nucleare e poi senza soluzione di continuità si passa all’omicidio di un leader delle Black Panther. Il film è diviso in capitoli senza connessioni, girato interamente in pellicola e utilizzando materiali d’archivio mischiati alle riprese di oggi. Un ritratto dell’Illinois inquietante in cui la regista fa perdere lo spettatore nei vari documenti storici, i brevi commenti non sono mai didascalici e ci permettono di fare i nostri personali collegamenti, permettendoci di farci affascinare dalle immagini.
da Berlino, Claudio Casazza