Due film affascinanti hanno aperto l’edizione 2018 della Berlinale, come sempre mi concentro su Forum, la sezione del festival con documentari, film sperimentali e aperture sul mondo sempre molto interessanti. Sono due film che ci legano alla terra e al mare, le nostre fonti di sostentamento primario e ci fanno fare dei ragionamenti legati al passato, presente e soprattutto futuro.
Wild Relatives di Jumana Manna racconta un fatto personalmente sconosciuto che mi ha fatto riflettere moltissimo. Nel profondo della terra, sotto il permafrost norvegese, sono conservati i semi provenienti da tutto il mondo. Sono immagazzinati nel Global Seed Vault alle isole Svalbard, un arcipelago del mare Glaciale Artico. Questa cripta gigante conserva una milioni di sementi e serve per fornire un backup in caso di disastri. A causa della guerra civile in Siria si è deciso per la prima volta in assoluto, di “replicare” le sementi provenienti dalla una grande banca genetica di Aleppo. Ora sono coltivate in Libano da rifugiati che sono stati costretti a trasferirsi a causa della guerra. Il documentario segue queste persone che stanno portando avanti questo lavoro meticoloso nei campi della valle della Beqaa, tra condizioni di siccità e il potere delle multinazionali agricole da combattere.
Il film è un continuo passare dal caldo estremo libanese al Circolo polare artico, dove il deposito di semi dovrebbe resistere a qualsiasi cosa, ma anche qui le temperature in aumento e lo scioglimento dei ghiacciai lo mettono in pericolo. La Manna collega diverse narrazioni e biografie, passa dal documentario di osservazione alle interviste, ma utilizza anche materiale di repertorio, e riesce così ad aprire un fondamentale spazio per riflettere sulla biodiversità, la resilienza, la giustizia globale e il cambiamento climatico, ci fa ragionare sui disastri causati dalla mano umana e gli sforzi fatti per superarli. E ci fa capire che la bellezza e l’orrore si trovano vicinissimi, sotto i nostri piedi o sopra la nostra testa, ma fatichiamo ad accorgercene.
Minatomachi-Inland Sea è invece il nuovo film di Kazuhiro Soda, regista giapponese che ho avuto la fortuna di conoscere l’anno scorso al Festival dei Popoli, in quella occasione gli è stata dedicata una retrospettiva che ha fatto conoscere al pubblico fiorentino e a molti addetti ai lavori la sua filmografia di assoluto fascino ed interesse, in gran parte inedita in Italia. Qui è possibile recuperare informazioni sulla retrospettiva dei Popoli e il “decalogo di Soda”, una lista di “dieci comandamenti” che definiscono il suo modo, libero e radicalmente indipendente, d’interpretare il documentario d’osservazione derivato dalla tradizione statunitense. Il regista giapponese entra in contatto coi suoi protagonisti, li segue, li filma e si diverte dialogando con loro.
Questo nuovo lavoro prosegue il suo percorso in un Giappone poco conosciuto: racconta la vita nel villaggio di pescatori di Ushimado che sta soffrendo il normale invecchiamento della popolazione. Il film alterna le storie di ottantenni, quasi novantenni, che continuano a vivere e sopravvivere lavorando tutti i giorni, le loro difficoltà, i loro momenti bui ma anche la loro felicità dando da mangiare a un gatto. Vediamo il signor Murata che esce ancora con la sua barca in mare tutti i giorni, vende poi il pescato al mercato locale dove lavora la signora Koso, che gestisce il “commercio” girando il villaggio ogni giorno nel suo furgone scassato e vendendo porta a porta il pesce fresco. Conosce le preferenze e le abitudini dei suoi clienti. L’isola di Ushimado offre così il posto ideale per le osservazioni di Kazuhiro Soda: il film è girato in un bel bianco/nero e si forma con l’incontro casuale con gli abitanti del villaggio, che parlano e ascoltano, dicono al regista cosa riprendere, raccontano storie o semplicemente vivono. La bellezza del cinema di Soda, è questo entrare in contatto con persone che spesso non abbiamo mai desiderato ascoltare.
da Berlino, Claudio Casazza