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Bergamo Film Meeting 2024: analisi e bilanci

Al Brasile i premi principali di una bella 42° edizione del Bergamo Film Meeting. Levante – Power Alley di Lillah Halla ha ricevuto il premio del pubblico tra i sette lungometraggi della Mostra concorso, mentre Até que a musica pare – Fino alla fine della musica di Cristiane Oliveira, coproduzione italiana, il premio della giuria per la regia. Nella sezione Visti da vicino premio di miglior documentario a The Golden Thread di Nishtha Jain e premio La sortie del l’usine della Cgil Bergamo a Når vandene deles – Murky Waters di Martin B. Gulnov. Secondo nelle preferenze degli spettatori l’ungherese Some Birds di Daniel Hevér e terzo il belga The Wall di Philippe van Leeuw con Vicky Krieps protagonista.
Entrambe le pellicole sudamericane hanno uno sfondo sociale e politico, più o meno marcato, legato alla deriva autoritaria della presidenza Bolsonaro, alle sue politiche di estrema destra e ai fondamentalisti religiosi. Tutte e due hanno componenti da road-movie e sono ambientare nel sud del Paese, un’area non molto frequentata dal cinema, tutti elementi che le associano a Beyond Ourselves di Rogério Rodrigues, presentato al Festival di Porretta nel 2022.

Fino alla fine della musica

Protagonista di Fino alla fine della musica è la coppia matura formata da Chiara e Alfredo, entrambi di ascendenza italiana, di cui hanno conservato molto, a partire dalla lingua, il “talian”. Morto il figlio Marco, anche Vancarlo se ne va di casa lascando sola la madre. Questa reagisce offrendosi di accompagnare il marito, reduce da un infarto, nei suoi viaggi nella regione per vendere prodotti quasi porta a porta. Chiara scopre cose che non sapeva del marito, dal fatto che trascuri la salute non prendendo i farmaci o bevendo troppo, anche prima di mettersi al volante, fino al vendere in nero per non pagare le tasse. Queste scoperte fanno salire la tensione tra i due, ormai abituati a parla e incontrarsi poco. Dall’altra parte, a inizio film Alfredo aveva regalato alla compagna una tartaruga di nome Filomena. Niente di sconvolgente fino a quando, in un pic nic con altri familiari, la donna conosce il fidanzato italiano (Nicolas Vaporidis) della nipote Gabi: questi è buddista e le parla della reincarnazione delle anime, scioccandola, perché immagina il figlio reincarnato in un animale. Basta qualche perché Chiara cominci a convincersi che in Filomena ci sia il figlio e inizi a parlare alla tartaruga. Altro elemento del film, il sostrato sociale e politico: la coppia è cattolica ed è condizionata dalle posizioni politiche estremiste degli esponenti del governo Bolsonaro e non sortiscono effetti i rimproveri dei figli che cercando di scuoterli dicendo che non basta che i politici parlino di Dio per nascondere le loro malefatte. L’origine italiana ritorna non solo nell’idioma familiare, ma pure in alcuni dialoghi, come l’incontro con un uomo che fa un resoconto del suo viaggio in Italia, affermando che tutti volevano sentirlo parlare e che aveva fatto piangere alcune persone perché parlava il dialetto di un tempo che nel nord Italia ormai si è perso. Fino alla fine della musica, in imminente uscita italiana il 28 marzo, è un discreto dramma familiare con una componente di road-movie, forse più efficace nella trama principale dei coniugi che un po’ si ritrovano e un po’ si scontrano, che nelle sotto trame che fanno più da sfondo. I due attori Cibele Tedesco e Hugo Lorensatti sono molto credibili e la regia è piuttosto precisa, non esibita, ma sa quello che vuole, anche con inquadrature lunghe e piani sequenza sui dialoghi. Un film che fa empatizzare con i personaggi e interessare alle loro vicende.

Levante

Ha elementi comune e un’atmosfera molto più energica Levante di Lillah Halla, incentrato sulla diciassettenne pallavolista Sofia. Nella prima scena organizza una messa in scena per rubare un test di gravidanza, al quale risulterà positiva, in una farmacia. La giovane è la trascinatrice della sua squadra, il Leiste, e ha la possibilità di ottenere una borsa per giocare in una squadra cilena l’anno successivo. La gravidanza sembra far crollare tutto, ma la ragazza non si perde d’animo e cerca un centro per abortire, proibito in Brasile alla sua età. La individua una volontaria anti-aborto.
Sofia ha 17 anni ed è una forte pallavolista, gioca nel Leiste ed è la più forte della squadra, la trascina a un bel campionato. A lei si interessa l’emissaria di una squadra cilena, che le vorrebbe proporre una borsa per l’anno successivo, però chiede garanzie. Ma nella scena iniziale Sofia con due amiche ruba dalla farmacia un test di gravidanza e scopre di essere incinta. Sofia si informa per abortire, cerca in internet, trova un centro, dove invece c’è una donna volontaria che cerca di impedire gli aborti e la terrà sotto controllo minacciandola. La ragazza non può abortire in Brasile, scopre che può farlo in Uruguay, così ne parla al padre, lo convince e partono insieme, ma è necessario provare la cittadinanza o la residenza in Uruguay: anche se sua madre (defunta) era uruguayana, non c’è tempo per fare i documenti. La voce della gravidanza e dell’intenzione di abortire si diffondono e su Sofia aumenta la pressione, fino a scritte ingiuriose e minacciose sui muri circostanti e un attacco alla sua abitazione che danneggia il deposito di miele paterno.
La pellicola è una buona storia di formazione, di una ragazza che vuole scegliere che fare nella sua vita e inseguire i suoi sogni senza arrendersi, di grande amicizia e sorellanza e di denuncia del clima opprimente (tra leggi e mentalità) del Brasile. L’ultimo aspetto è importante ma funziona meno, soprattutto per come è costruito i personaggio della donna del movimento pro-vita.

Some Birds

Interessante anche l’ungherese Some Birds di Daniel Hevér, storia di solitudine di un anziano che si sente messo da parte anche se si sente ancora attivo. Béla vive solo, ma un giorno cade in casa ed è ricoverato in ospedale. Il figlio Male, che vive a Berlino con moglie Ana e figlioletto Hans, non sa come fare, lo colloca in un ospizio dicendo che è una sistemazione temporanea. Con i giorni Bela si riprende, ma si ritrova spaesato e solo, ancor più dopo l’improvvisa morte del compagno di stanza, con il quale stava iniziando a stringere amicizia.
L’unica che lo capisce è la giovanissima Zoe, una studentessa che svolge uno stage come inserviente: una notte si incontrano in cucina a farsi da mangiare (Bela detesta e rifiuta il cibo che gli danno in mensa, sostiene che li avvelenano) e diventano complici. Entrambi vorrebbero fuggire, una da una mamma separata e appariscente che si lega a un inetto, l’altro da un luogo che percepisce come una gabbia e una prigione. Il protagonista lotterà per farsi riconoscere la capacità di essere autonomo, non si rassegna a vegetare in un ricovero dove tutto è già previsto e stabilito da altri. Hevèr costruisce con delicatezza e senza troppa retorica un film sui vecchi messi da parte, con pochi rapporti e poca comunicazione tra le generazioni. Un lavoro non trascendentale, ma ben scritto, ben diretto e ben recitato.

Good Guys Go To Heaven

Merita un po’ di attenzione anche l’opera prima romena Good Guys Go To Heaven di Radu Potcoava con Bogdan Dumitrache e Cosmina Stratan (vista in Oltre le colline di Cristian Mungiu). Dan è un quarantenne che muore in un incidente stradale, travolto da un camion mentre litiga al telefono con la moglie. Dopo il funerale, si ritrova in un aldilà condotto da un incaricato a una roulette isolata su una spiaggia deserta dove trascorrere il primo periodo. Pare una vacanza un po’ assurda, con rifornimenti di bibite e pasti (che rifiuta) che fanno pensare a Ricomincio da capo, mentre la tecnologia gli consente di vedere da lontano la moglie Ada e la figlia Zoe per sincerarsi delle loro condizioni. Al defunto comincia ad apparire la vecchia compagna di liceo Laura, che aveva amato in segreto e sembra davvero aprirsi una nuova vita. Intanto Dan rivede il suo passato, le sue scelte e i suoi errori. Se la scuola romena è sempre una garanzia, almeno di buona fattura, Good Guys Go To Heaven è un lavoro medio, uno sguardo diverso sulla morte, con un filo di leggerezza, con bravi interpreti, anche se pecca un un po’ di discontinuità tra i diversi episodi.

Au_cimetiere_de_la_pellicule

In Visti da vicino è stato presentato il simpatico e originale guineiano Au cimetière de la pellicule – Cementery of Films di Thierno Souleymane Diallo. Una ricerca e un’indagine sul cortometraggio Mouramani girato nel 1953 da Mamadou Touré e considerato il primo film di finzione dell’Africa nera francofona. Secondo alcune fonti era incentrato su un re che a fine ‘600 andò dal Mali alla Guinea per islamizzarla, per altre sul rapporto tra un uomo e il suo cane. Il film è circondato da un’aurea di leggenda, ma nessuno l’ha mai visto. Così Diallo parte, camminando a piedi nudi per non far rumore, portandosi sempre addosso l’attrezzatura per filmare, per un viaggio di scoperta e riscoperta, sebbene in alcuni momenti ci si senta dalle parti del mockumentary e tutto sembri un pretesto. Se di pretesto si tratta, è utile per immergersi nella poco nota storia del cinema africano e di una pagina ancora più ignorata. Diallo è legato all’oralità del racconto e alle tradizioni e le usa per far emergere i temi che gli interessano: l’incontro iniziale per ricevere la benedizione della nonna per il nuovo lavoro è l’occasione per ricordare quanto fosse considerato un perditempo quando studiava cinema. Il regista visita vecchi cinema ormai chiusi da decenni, trova manifesti impolverati, biglietti rimasti sul pavimento e bobine dimenticate, anche di film porno. Incontra vecchi cineasti, visita il Centro culturale franco-guineiano che faceva da cineteca e non trova nulla, nessuno sa niente. Arriverà a Parigi, al Cnc, a trovare una pellicola completamente deteriorata e avere una bell’idea conclusiva. Il regista ricostruisce la storia del cinema in Africa e in particolare Guinea (uno dei Paesi più importanti dal punto di vista cinematografico) e le vicende di una nazione segnata, dopo la fine del periodo coloniale, da dittature. Così dalla fondazione della compagnia statale Sily Cinema negli anni ‘60, che diede impulso all’attività, si passò in breve all’arresto e alla detenzione nei campi dei suoi membri nel 1970. Diallo torna alla scuola di cinema di Conakri, stavolta per tenere una lezione, e chiede ai giovani studenti che registi guineani conoscano e a fatica stilano una lista e parlano di Luis de Funès e di Joris Ivens. Il film è interessante, anche nel muoversi sul terreno rischioso del non sapere cosa sia vero, è a tratti un po’ dilatato ma riesce a non cadere nel didascalismo.

Nel resto del sempre ricco programma dal Bfm spiccava la bellissima, sebbene non completa soprattutto per l’ultimo periodo, retrospettiva dedicata a Eric Rohmer, allestita all’ultimo momento per rimpiazzare quella annunciata sul georgiano Otar Ioseliani, sfumata per ragioni di diritti. Da notare la riscoperta dell’attore e regista francese Sasha Guitry con il suo cinema di impronta teatrale e il terzetto di autori in evidenza in “Europe, Now”: la danese Frederikke Aspock, lo sloveno Metod Pevec e lo svedese Lukas Moodysson. L’ultimo era il più noto in Italia, soprattutto per i suoi primi film, Fucking Amal, Together e Lilja-4-ever, che ebbero distribuzione in Italia tra fine anni ‘90 e primi 2000. Bergamo ha dato l’occasione di recuperare Together 1999 (2023), che riprende 25 anni dopo i personaggi del precedente per una sorta de Il grande freddo per gli ex frequentatori della comune, e la coinvolgente amicizia punk di We’re The Best (2013).
Commedie bizzarre e amarognole incentrate sulle relazioni di coppia sono i film della Aspock, che ha uno sguardo personale sulle assurdità e l’inaspettato e deve qualcosa proprio a Moodysson, compreso il dito medio alzato dalla protagonista di Rosita che riprende quello di Lilja.

Ha una carriera quarantennale, prima giovanissimo attore (protagonista tra gli altri di Arrivederci alla prossima guerra – Na svidenje v naslednji vojni del grande Živojin Pavlović del 1980) e poi regista nella nuova Slovenia, Pevec. Un regista poco noto in Italia, se non per alcuni passaggi a Trieste Film Festival, ma da scoprire, con i suoi film che vanno dalla commedia surreale balcanica al melodramma alla commedia sentimentale venata di thriller al dramma sociale. Tutti film, da Carmen (1995, con la fotografia di Tomislav Pinter) a I’m Frank (2019) più complessi e profondi di quanto possano sembrare, con temi che ritornano, una cura dei dettagli e una grande capacità nella scelta e nella direzione degli attori.

Nicola Falcinella

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