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Barbie

A Barbieland, la vita è perfetta, nessuna sbavatura nelle esistenze di Barbie classica (Margot Robbie) e di tutte le altre Barbie, ognuna con un ruolo gratificante in una società chiusa e matriarcale, dove gli uomini, i Ken, sono impegnati in divertimenti da spiaggia, tutti, a loro modo, innamorati di Barbie. La routine sempre uguale ma appagante, dal risveglio al mattino fino al party serale per sole donne, è spezzato da perturbanti pensieri che si affacciano nella mente di Barbie classica e che hanno a che fare con la morte. Sembra l’inizio della fine di un mondo perfetto. In Barbie inizia a prevalere un senso di inadeguatezza, imperfezioni come i piedi piatti o l’alitosi la sconvolgono. Weird Barbie (Kate McKinnon), quella stramba, la più estrosa e controcorrente, le suggerisce di andare nel mondo reale, trovare l’umana che la possiede, e rimettere a posto le cose. Ken (Ryan Gosling), nascosto nella sua decappottabile, la seguirà e insieme scopriranno che la società degli umani non è Barbieland, gli uomini vestono ruoli di potere, le donne sono oggetto di attenzioni spesso sgradevoli.
L’inaspettato materializzarsi dei due bambolotti in carne ossa allarma la Mattel.

A tratti, vedendo Barbie, ho pensato se non fosse uno di quei film in cui lo sguardo di genere sull’opera potesse modificarne le valutazioni. Si è detto che quello di Greta Gerwig (Lady Bird, Piccole donne) è un film che riflette sul declino del patriarcato, che al contempo eleva la donna (bambola) al di sopra dello stereotipo che la vorrebbe subordinata all’uomo e, oltretutto, oggetto. In effetti, il film scritto da Gerwig con il compagno d’arte e di vita Noah Baumbach (regista di Lo stravagante mondo di Greenberg, Frances Ha, Mistress America, per citare i titoli in cui la Gerwig è protagonista) riesce nell’intento di portare in sala, e ad un pubblico più vasto possibile, temi solitamente affrontati in pellicole di tutt’altro genere, quasi sempre rivolti a spettatori adulti. Barbie, è bene precisarlo, è un film anche per famiglie, che diverte i bambini, che sfoggia colori da fiaba, con numeri musicali ben coreografati e un plot semplice, che tenta stratificazioni di senso, senza riuscirci, quando ad esempio, nel mondo reale, Barbie conosce la donna che l’ha posseduta come giocattolo e che, senza marito, deve gestire un difficile rapporto con la figlia appena adolescente. Una sottotraccia poco avvincente, già vista, che dovrebbe annodarsi con l’altro tema, più forte, quello del confronto tra patriarcato e matriarcato, non tanto nel tuffo da Barbieland verso l’ignoto universo umano, quanto nel ritorno a casa, quando Ken pretenderà un ruolo ben diverso nella società rosa delle Barbie, adottando dinamiche subdole per accaparrarsi il potere e detronizzare le donne.

Fumettistico certamente, esilarante a tratti – pur sempre di commedia si tratta – il film eccede spesso nel caricaturale, soprattutto nella messa in scena del gruppo Mattel, esclusivamente maschile, probabilmente usurpatore, manifesto di una macchina da soldi a cui la Mattel stessa (committente del film con la Warner) fa il verso, con ironia. Ma ciò che risulta è un eccesso macchiettistico, talmente ridicolo da nascondere realtà di fatto ben più dolorose per le donne. Gli uomini sembrano troppo idioti per essere veri, tanto per capirci. Il messaggio risulta così frenato, di superficie, almeno nel mondo reale. Mentre sembra prendere concretezza in quello dei giochi, un po’ fasullo, una magnifica finzione manipolata alla Truman Show, ma anche un po’ Rosa Purpurea del Cairo, dove il film nel film è un intrattenimento liberatorio che mette in fuga la vita dai meandri di un incubo. Così le bambole, soprattutto Ken, quando attraversano canali di valico permeabili come lo schermo cinematografico di Allen, constatano quanto il gioco sia la menzogna del mondo reale, manipolato da un Grande Fratello che opera nell’ombra e assegna ruoli alle donne nei margini sintetici del gioco stesso.

Barbie nasce alla fine degli anni 50 da un’idea di Ruth Handler, che a sua volta aveva preso spunto da una bambola sexy tedesca, l’elegante squillo Bild Lilli. Era diventata uno stereotipo di bellezza più volte discussa per l’influenza che aveva avuto sull’immagine femminile per milioni di bambine in tutto il mondo (soprattutto occidentale e capitalista). Nonostante le diverse versioni incarnassero ruoli sociali di rilievo (Barbie dottoressa, insegnante, presidente, ecc.), nonostante altre versioni ne avessero modificato le forme per commercializzare bambole con qualche chilo di troppo, l’intenzione correttiva ha sempre fatto a pugni con l’idea di mondo leccato a lucido, plasticoso, infarcito di guarnizioni dolciastre, dove la donna per essere libera dalle catene del maschile è autarchica e autosufficiente, a-sessuata, eterna. Tutta la prima parte folgorante di Barbie ne è l’emblema. La bambola è all’origine del mondo perché le bambine si possano rispecchiare nel ruolo di madre, fino a quando arriva una gigantesca Barbie, epifania come il monolito kubrickiano, che non vuole essere accudita, modello già efficiente di successo a cui aspirare, eventualmente da pettinare o vestire con abiti di classe.
Barbie come una divinità immortale, senza però avere la consapevolezza della sua immortalità, almeno fino a quando – e qui lo spunto geniale – non si interroga sul mistero dei misteri: “Pensate mai alla morte?”. Una scossa che fa tremare Barbieland, un fluido scuro che si insinua nei tracciati rosa delle villette e nel verde posticcio dei giardini. La perdita della verginità fanciullesca, perché pensare alla morte significa cadere dal cielo, soccombere alla gravità, come gli angeli di Wenders, e per questo farsi eroici come umani invidiati dagli dei, la cui immortalità è limite alla conoscenza.
Barbie acquisisce consapevolezza di sé, trasforma il gioco in uno specchio vero del mondo, valica il limite tra universi, si incarna, a costo di ribaltare le regole del suo amato paradiso: il pensiero della morte come la mela di Eva, Barbie come la prima donna, il monolito kubrickiano, misteriosa e vera.
Ma il film vira verso un finale conciliante in cui la vecchia Ruth, madre creatrice della bambola, congeda il pubblico femminile con un monologo telefonato sull’essere donna. Barbieland può continuare ad esistere e la Mattel a vendere bambole.

Vera Mandusich

 

Barbie

Regia: Greta Gerwig. Sceneggiatura: Greta Gerwig, Noah Baumbach. Fotografia: Rodrigo Prieto. Montaggio: Nick Houy. Musiche: Mark Ronson, Andrew Wyatt. Interpreti: Margot Robbie, Ryan Gosling, America Ferrera, Kate McKinnon, Michael Cera, Ariana Greenblatt, Issa Rae, Rhea Perlman, Sharon Rooney, Helen Mirren. Origine: USA, Canada. Durata: 114′.

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